Giobbe Covatta tra peccati e risate

Parte dai (perdonabili) gola e lussuria, poi passa per superbia, ira, invidia e avarizia per arrivare al peggiore, accidia

Prosegue il progetto Janácek. Agli occhi ancora incantanti dalla magnifica Kát'a Kabanová di Robert Carsen sta per apparire Jenufa. Un nuovo allestimento coprodotto con Madrid e Parigi. Regia e scene di Stéphane Braunschweig, costumi di Thibault VanCraenenbroeck, direzione di Lothar Koenigs. Anche per motivi di lingua quelle di Janácek non sono opere che si incontrano a ogni angolo. Non a caso l'unico precedente scaligero di Jenufa risale al 1974. Con Jerzy Semkov direttore e Magda Olivero Kostelincka. Le recite di 33 anni fa sono tuttavia lontane da qualunque veridicità filologica, ad iniziare dall'utilizzo della lingua italiana nell'opera che sposa strettamente la musica ai modi di un dialetto moldavo. Questa sarebbe quindi la prima vera Jenufa alla Scala. L’opera rappresenta la più importante affermazione del padre dell'opera morava, specchio dolente del suo strazio per la morte prematura dei figli Vladimir e Olga. Jenufa è tratta dal dramma naturalista di Gabriela Preissová «La sua figliastra», visto a Praga nel 1890. Lo stesso compositore ricava il libretto dal testo in prosa. Il momento è quello dell'affrancamento dal modello tedesco a favore di un teatro dichiaratamente moravo espresso con lessici che da un lato distillano il folclore (anche Janácek è della schiera di quelli che vanno per campi alla ricerca dell'humus popolare) e dall'altro studiano la parola e il periodare. Per conferire a accenti, cesure, ritmi, inflessioni e pause una valenza musicale. Mentre la ripetizione di microcellule appena variate sono l'onomatopea sonora degli stati d'animo (le «istantanee dell'animo»). La melodia è un lampo, il tessuto disarticolato dell'orchestra un realismo tanto crudo da far parlare di espressionismo. Mentre il pulviscolo sonoro ricorda Debussy. Un Debussy ferocemente realista. Si utilizza il declamato. Non uno Sprechgesang strumento di astrazione, ma una crudezza di stampo verista. La genesi del lavoro è lunga e contrastata. Proposta a Praga nel 1903 l'opera è rifiutata per eccesso di modernità. Verrà data Brno nel 1904. È un successo, ma Janácek deve aspettare il 1916 per vedere la sua opera (ampiamente manomessa) a Praga. Subito vi saranno una versione tedesca (Max Brod, scrittore e amico di Kafka) e le rappresentazioni di Vienna e Berlino. Cioè fama e popolarità ma anche il crescente scollamento dall'originale, a sua volta reso praticamente inavvicinabile da correzioni e appunti segnati sul retro dei fogli della partitura. Un'edizione conforme verrà ricostruita da Charles Mackerras, appassionato studioso nonchè direttore, lo stesso che firma la prima incisione attendibile (1982, con i Wiener).
Anche Jenufa, a lungo sinonimo di Janácek, rappresenta un mondo contadino aspro e rude.

Ma è soprattutto una storia dello spirito che sbalza con sottili distinguo le singole individualità. Sin dall'istante in cui l'opera apre sul tintinnare dello xilofono che imita il rumore dell'acqua del mulino. Da domenica 29 con i complessi del teatro e un cast di specialisti tra i quali la storica Anja Silja.

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