La giustizia sommaria del tribunale di carta

Il sistema è sempre lo stesso: una frase più pesante di un catenaccio, chiusa a doppia mandata dalle virgolette. Di chi? Non importa: possono essere di un Pm, di un giudice, di un teste, o più semplicemente dell’articolista che ha operato una sintesi di qualche documento. A la Repubblica hanno una lunga consuetudine con le virgolette: da Vittorio Emanuele a Marco Tronchetti Provera e Ottaviano Del Turco il quotidiano romano ha emesso a tempo record sentenze di colpevolezza che il tempo ha ridimensionato o fatto franare. Non importa: con un paio di virgolette, equivalente su carta delle manette, si dà il timbro di una presunta ufficialità alle accuse di turno e si confeziona il verdetto. Inappellabile.
Ricordate il principe Vittorio Emanuele? In fondo è successo tutto due anni fa, nel giugno 2006, e il Savoia, con le sue frasi antipatiche e sgradevoli intercettate a pezzi e bocconi dai Pm di Potenza, ci ha messo del suo per mettersi nei guai, ma Repubblica seppellisce definitivamente quel che resta della regalità sotto un titolo mitragliato in due righe: Quei soldi in busta per il principe, «Un’abitudine per lui delinquere». Un’espressione che, collocata con quel rilievo e quella nettezza, vale da sola un primo grado, un appello e pure la Cassazione. Che altro aggiungere? In verità la tumultuosa inchiesta di Potenza è appena emersa, ma articoli, commenti e grafici spazzano via i dubbi. Il 20 giugno, smarrita non solo la corona ma anche la dignità minima, Vittorio Emanuele sembra inchiodato definitivamente. Il titolo di apertura è: Savoia, prime confessioni. Sotto, la foto dell’inquisito. E fra virgolette un’altra condanna: «Pagai al principe 60 mila euro».
Il giorno dopo, il principe occupa pagine e pagine. È l’album di un uomo immerso nel fango: Vittorio Emanuele sotto torchio: collaborerò. E poi, all’interno, quella che sembra un’ammissione disperata, naturalmente incorniciata dalle solite virgolette: «Non ero il capo di quella banda». Insomma, il Savoia poteva giocare a fare il re a casa sua, poi si muoveva per gli affari dentro il perimetro di una piramide criminale.
Sappiamo com’è andata a finire. Il filone comasco sulla prostituzione, forse il più odioso e degradante, è andato in archivio; quello romano sulla corruzione per i videopoker ha imboccato la stessa strada e ora toccherà al gip decidere; a Potenza invece va avanti l’indagine sull’associazione a delinquere, che però è un po’ una scatola vuota, e su alcuni episodi satellite. Possibile? E quei verdetti di carta esibiti accanto alle sue foto e a quei suoi balbettii infelici? Quelli restano. Come le virgolette che protocollano giudizi devastanti: «Il principe puntava a beni mafiosi».
La camera di consiglio può essere lunga 30, 60, 80 righe. Salvo Sottile, portavoce di Gianfranco Fini, va ai domiciliari per una storia di concussione sessuale. Uno di quei temi che vanno padroneggiati con assoluto rigore, perché accendono micce incontrollabili nell’opinione pubblica e alimentano i forconi dell’indignazione popolare. Tornare indietro in caso di errore a queste latitudini, è impresa difficilissima. Repubblica però va avanti a testa bassa. Sforna una pagina divisa in due. In alto, sotto il solito titolo lucchettato da virgolette: «Sesso anche a Palazzo Chigi», c’è la cronaca del presunto naufragio di Sottile. Sotto, un dotto commento analizza «il capogiro da sottogoverno degli ex camerati». Questo il 19 giugno 2006; il 22 giugno un altro titolo-ruspa rimuove, o così sembra, l’ultima trincea difensiva: Sottile respinge le accuse ma la Gregoraci lo smentisce. A corredo, ecco il sommario: La showgirl in lacrime: «Ho ceduto, ma consenziente». L’indomani, in verità, la showgirl ribalta: La Gregoraci accusa Woodcock. «Ho subito le sue pressioni». E questa volta le virgolette servono per puntellare la versione difensiva e non per crocifiggere l’indagato di turno. Ma il verbale che occupa la parte inferiore della pagina ristabilisce la verità presunta: Sottile è colpevole. Il finale, ancora una volta, dovrebbe interrogare chi fabbrica in 24 ore la colpevolezza e la marchia con una titolazione così aggressiva: la Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione dell’accusa, il gip sigilla con un provvedimento che azzera lo scandalo.
Qualcosa del genere è accaduto per Marco Tronchetti Provera: le sue foto, accanto al nome di Tavaroli e a lunghe dissertazioni sugli 007 di Telecom, ne hanno fatto un indagato di complemento. Finché l’indagine è finita e lui è rimasto un testimone. Pazienza. Quando i processi si chiudono senza rispettare le aspettative del quotidiano, allora la Repubblica costruisce un altro verdetto. È capitato in questi giorni con le violenze per il G8 di Genova.

Giuseppe D’Avanzo, editorialista di punta della corazzata romana, attacca i giudici in una lunga analisi. Chi se l’è persa la trova sintetizzata nel titolo di prima pagina: I giudici ciechi di Bolzaneto. Le sentenze, quando sono scomode, non si rispettano.
Stefano Zurlo

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