È nella distanza che passa tra il «sognarsi» e il «pensarsi» genitori la chiave per capire come affrontare la questione demografica.
È di questi giorni un'interessante indagine dell'Istat condotta su un campione di giovanissimi compresi fra gli 11 e i 19 anni. La percentuale di ragazzi e ragazze che immagina di sposarsi è molto alta, e anche il desiderio di mettere al mondo uno o più figli raggiunge percentuali consistenti.
Nelle ombre di un quadro demografico che è cupo e allarmante in tutta Europa, e ormai in buona parte del mondo, si vede quindi qualche luce. La prima: la ricerca è stata condotta negli ultimi mesi del 2023, e non risultano esserci indagini precedenti comparabili. È dunque una prima volta, e il fatto che la statistica stia scandagliando il fenomeno con approcci inediti e approfonditi è segno della nuova centralità che in Italia è stata attribuita al tema delle culle vuote. Credo che sia un risultato ascrivibile al governo Meloni, che ha finalmente fatto della natalità una priorità assoluta, prima nel programma e poi nella propria azione. Il prossimo passo, che abbiamo già avviato, sarà fare della lotta all'inverno demografico una sfida europea.
Seconda luce: la fotografia dei sogni dei giovanissimi dà l'idea dei figli percepiti come qualcosa di positivo e arricchente. Considerato che la reazione ai mutamenti sociali è in genere tanto più veloce quanto più si è in giovane età, questo elemento induce cautamente a pensare che qualcosa, nella percezione diffusa, stia cominciando a muoversi.
Il dato si fa più complesso se confrontato con un'altra ricerca, di natura differente e, dunque, non pienamente comparabile, ma significativa. Mi riferisco a un sondaggio realizzato da Antonio Noto su un campione di giovani tra i 18 e i 30 anni: ragazzi, cioè, chiamati a pensarsi concretamente genitori e non solo, come è per gli 11-19, a immaginarsi astrattamente tali. Metà degli intervistati, alla domanda «quanti figli pensi di avere a 40 anni?», ha risposto «nessuno». E, nella quasi totalità dei casi, la risposta viene spiegata con ragioni di carattere culturale: voglia di indipendenza, refrattarietà ai progetti a lungo termine, sfiducia nella società, e via di questo passo. Solo nel 13 per cento dei casi la motivazione è economica.
Il combinato disposto tra le due indagini traccia un affresco dai contorni abbastanza precisi. Significa che, mentre la fascia di popolazione tra i venti e i trent'anni risente di una lunga disattenzione (per non dire ostilità) nei confronti della famiglia, per i più giovani la genitorialità sta tornando un valore positivo, un'immagine desiderabile e attraente (e questo nonostante il dato su una persistente paura verso il futuro).
Questo governo sta investendo per le famiglie e la natalità come mai si era visto prima. Vogliamo che lo scarto tra il desiderio, l'immaginazione e la realtà sia colmato da provvedimenti che abbiano effetti concreti, che accompagnino la scelta di fare figli, la rendano più semplice e premiante; ma l'effetto principale di questo sforzo è forse proprio quello culturale.
Tornare a parlare di natalità in modo positivo, ricordare che diventare genitori vuol dire trasmettere ad altri una sovrabbondanza di vita e vedersi restituita questa vitalità attraverso i figli, che proiettarsi nel futuro è un desiderio spontaneo che può regalare pienezza, è il risultato più significativo che possiamo raggiungere; i dati offerti dall'Istat sono un primo, promettente, segnale di cambiamento.* Ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità
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