La vera notizia, oggi, è il fatto che il voto del Parlamento italiano che ha reso perseguibile la pratica dell'utero in affitto anche se commessa all'estero, sia una notizia. La vera notizia è che questa battaglia di civiltà non sia un'ovvietà condivisa da tutti.
Dovrebbe essere un fatto scontato che «i figli non si pagano», come diceva Filomena Marturano nella celebre commedia di Eduardo de Filippo (che oggi sarebbe considerato un pericoloso reazionario). Dovrebbe essere una verità banale che le donne povere non si sfruttano, che la genitorialità non si commercializza per contratto, che le parti del corpo umano non si possono mettere in vendita, e che questo è un criterio di civiltà. Un criterio che protegge chi è più fragile ed esposto, e che impedisce di sfruttare situazioni di bisogno. È il criterio che da sempre qualifica la legge italiana, per esempio nell'ambito dei trapianti di organi. Andrebbe spiegato a chi approva, o anche solo giustifica, il grande mercato transnazionale ipocritamente definito «gestazione per altri».
E ancora. Pagare una donna perché ceda un bambino già nato è reato in tutto il mondo: è semplicemente impensabile, per chiunque, e a qualsiasi latitudine. Non si capisce per quale motivo invece «ordinarlo» su un catalogo e ritirarlo dopo il parto, previa sottoscrizione di un contratto e corrispettivo in denaro, dovrebbe essere una grande conquista lungo la frontiera dei «nuovi diritti».
La verità è che i diritti che l'utero in affitto calpesta sono tanti: quelli delle donne, quelli dei bambini, e i diritti fondamentali connaturati alla condizione umana. Diritti che da oggi, in Italia, sono più forti.*ministro per la Famiglia
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