Guardiamo al Risorgimento per ritrovare la patria

Né fascismo, né resistenza, né cattolicesimo: pur con tutti i suoi limiti è nel percorso che portò all’Unità che dobbiamo riconoscerci

Nel dibattito sull’identità italiana s’incrociano sentimenti e risentimenti personali, emergono le divergenze politiche, s’affollano i riferimenti storici e culturali. Lo vedo anche dalle lettere che arrivano al Giornale. Si cerca una stagione delle vicende nazionali, o una data, o un personaggio che possano essere simbolo di tutto e di tutti, dirci chi siamo. Importantissimo allora è non sbagliare stagione.
Il fascismo sbagliò clamorosamente la stagione di riferimento. Scelse la romanità, che in effetti è il maggior retaggio del nostro passato. Mussolini fu in dubbio sul modello imperiale da imitare: Cesare o Augusto. Poi preferì Cesare, la gloria militare lo suggestionava. Coi fasci littori, i gagliardetti, le quadrate legioni e i colli fatali di Roma il Duce - anzi Dux - volle forgiare un’identità italiana coincidente con antichi trionfi. Ma non si rese conto - o si rese conto in ritardo - d’essere incorso in un equivoco più fatale dei colli.
Gli italiani hanno tante qualità, a volte straordinarie, e tanti difetti. Ma le une e gli altri opposti a quelli della Roma vocata dalla sorte a parcere subiectis et debellare superbos. I romani erano tutto sommato mediocri artisti - attinsero senza risparmio al genio greco -, non avevano molta fantasia. In compenso avevano qualità militari straordinarie, un forte senso dello Stato, una capacità organizzativa mai eguagliata, un senso forte della propria potenza. Gli italiani sono stati e sono artisti eccellenti. Nella Toscana del Rinascimento come nell’Atene di Pericle s’è avuto un addensamento di geni artistici e letterari quali altre immense aree del mondo non ebbero mai. Gli italiani hanno mediocri qualità militari sia nei soldati sia soprattutto nei comandanti, hanno scarso senso dello Stato. Un trait d’union più evidente tra queste due ere è nella costruzione. Grandissimi costruttori, architetti, creatori di strade furono gli antichi, grandissimi costruttori sono stati sempre gli italiani nei secoli, fino ad oggi. La romanità di Starace era cartapesta. L’ho vissuta e subita da ragazzo, e mi guardo bene dall’atteggiarmi ad antifascista. Ma anche noi adolescenti capivamo l’inconsistenza roboante di quelle liturgie, il grottesco dei centurioni grassocci e dei gagliardetti sventolanti.
Ugualmente fallimentare, perché anch’esso posticcio, fu il tentativo di individuare nella Resistenza la prova storica dell’identità italiana. Per oltre mezzo secolo i retori ci hanno assordati con declamazioni sulla lotta di Liberazione. C’è stato perfino chi con le migliori intenzioni - come Carlo Azeglio Ciampi, e sulla sua scia come Giorgio Napolitano - ha voluto vedere nel vergognoso 8 settembre 1943 l’inizio d’un riscatto nazionale, il segno d’una rivolta ideale. Tentativo posticcio, ho accennato, perché si basava - come quello della ruggente romanità - su un falso. Il falso d’un popolo italiano ansioso di democrazia e sofferente sotto il tallone mussoliniano che finalmente nella Resistenza avesse potuto esprimere queste sue nobili passioni. Il popolo italiano non fremeva, al cambio d’alleato arrivammo soltanto perché la Germania stava perdendo la guerra, la lotta allo straniero fu inquinata dalla furia settaria con cui gli adoratori di Stalin volevano sostituire la stella rossa alla croce uncinata, relegando la libertà tra i vecchi arnesi della politica.

A mio avviso, dunque, è inutilizzabile anche la Resistenza come simbolo di identità nazionale. Ho seguito, come cronista del Corriere della Sera, il tardivo processo a uno degli ex partigiani comunisti che nel luglio del 1945 fecero irruzione nelle carceri di Schio, dove erano detenuti fascisti e accusati - anche a torto - di fascismo, e fecero strage. Ricordo la meschinità e direi la banalità di quel carnefice così inadeguato al ruolo feroce che aveva svolto. No, quelli come lui non potevano rappresentare la patria.
Sono laico. E sto assistendo con qualche apprensione al ritorno in forze d’un certo clericalismo che innalza a emblema della nazione, a suo principio fondante, la tradizione cristiana, o per essere più precisi cattolica. Si è lamentato, a mio avviso giustamente, che la progettata Costituzione europea non recasse traccia di questa eredità spirituale, degna di stare nella Magna Charta del continente. Ma qui stiamo parlando non dell’Europa ma di un suo specifico Stato, l’Italia. C’è la tendenza ad ascoltare le parole del Papa quasi che fossero le parole d’un nostro supremo reggitore. Penso non si debba dimenticare che l’Unità d’Italia è stata fatta contro la Chiesa, nonostante la Chiesa, a dispetto della Chiesa; e che i padri della patria - Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi - morirono tutti scomunicati. La religione dei nostri padri e dei nostri avi ci appartiene. Con le parole che accompagnano i momenti supremi della vita - la nascita, il matrimonio, la morte - la fede è penetrata nelle fibre più intime della nostra essenza umana. Può essere la nostra identità religiosa e spirituale, non la nostra identità nazionale. Vista la tradizione italica d’ambiguità e di voltafaccia, è meglio non si inneggi contemporaneamente a chi aprì la breccia di Porta Pia e a chi difese - piuttosto svogliatamente - Porta Pia.

Con questo percorso un po’ grossolano ma spero chiaro approdo alla conclusione che mi pare più ovvia e più giusta. Con tutti i suoi limiti, le sue meschinità, se volete le sue viltà e le sue crudeltà, il Risorgimento rimane il momento patrio nel quale possiamo riconoscerci. Sì, l’Unità fu il prodotto di tre vittorie straniere - Solferino, Sadowa, Sedan - ed ebbe un andamento tortuoso. Così tortuoso da sembrare, retrospettivamente, un miracolo, il frutto prodigioso di circostanze irripetibili. Lo volle una minoranza, come sempre avviene per le svolte epocali. Ma una larga parte di quella minoranza aveva ideali, convinzioni, coraggio, consapevolezza delle idee che percorrevano l’Europa e che si esprimevano, in Paesi diversi, con episodi analoghi. Quella minoranza amò l’Italia che non poteva essere amata - essendo un concetto remoto e alto - né dai contadini austriacanti del Lombardo-veneto, né dal misero popolino dello Stato della Chiesa, né dalle plebi del sud. Si dice di volere per il Risorgimento una memoria condivisa, aggiungendo però che fu uno schifo.

Cosa c’è allora da condividere? E i nostalgici del favoloso ricchissimo e progreditissimo Regno del sud, quale simbolo o quali date propongono, per l’affermazione dell’identità italiana, in sostituzione del Risorgimento?
Possiamo celebrare, ricorrendo i centocinquant’anni dell’Unità, un grande evento. Che fu anche in alcuni suoi aspetti piccolo, perché così va la vita degli individui e dei popoli.

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