Il gusto messo in posa nel salotto delle vanità

Alla National Portrait Gallery di Londra i ritratti fotografici delle celebrità del ’900. Un tour nella storia, da Gloria Swanson ai pompieri di Ground Zero

da Londra
La vanità, diceva Nietzsche, è la più vulnerabile delle cose, e tuttavia la più invincibile. Le immagini patinate in quasi cento anni di Vanity Fair, la rivista fondata in America per lusingare la gente famosa e le nascenti celebrities, mostrano come il grande vizio sia irrinunciabile. Lanciata dalla Condé Nast agli albori del modernismo per diffondere con leggerezza la cultura dell’avanguardia, la rivista diventava lo specchio delle vanità più estese, ma nel senso tutto contrario alla complicata satira di Thackeray da cui prende il nome. Sia pure in modo elegante, lo scrittore inglese sparava a zero sui personaggi deludenti, «spregevolmente stupidi ed egoisti» di una società caratterizzata dall’ipocrisia e dall’opportunismo. Sono più o meno gli stessi tipi sociali che vanno e vengono sulle pagine della rivista, ma qui le moderne celebrities sono invitate a entrare in un raffinato gioco di immagini attraverso i mutevoli canoni di ogni epoca.
Dall’età del jazz all’11 Settembre, dal 1913 e le immagini di Edward Steichen e Cecil Beaton fino ai più recenti ritratti di Mario Testino e Annie Leibovitz nel 2008, una rassegna alla National Portrait Gallery di Londra, «Vanity Fair Portraits: Photographs 1913-2008» (fino al 26 maggio) celebra il trionfo dell’impotenza della fotografia nello scavo psicologico di un volto o di una personalità che vuole o deve a tutti i costi piacere. Sono immagini in cui non succede niente di interessante, ogni ambizione satirica nella rivista è assente fin dai primi numeri, anche se le immagini in bianco e nero dei primi tre decenni ci sembrano più belle e intriganti, avvolte in un’aura storica, quando in effetti l’obiettivo poteva fare miracoli di inventiva. Dall’incantevole e ingenua immagine di copertina di Anna Pavlova nel Cigno alla Mary Pickford di Ira L. Hill ai sapienti chiaroscuri di Baron de Meyer (Nijinsky in Sheherazade) ai capolavori dei pionieri della nuova arte, Stieglitz, Man Ray e Steichen, il volto di Gloria Swanson sfiorato dal pizzo di una veletta, Isadora Duncan fra le colonne del Partenone... Né manca una fotografia di Leni Riefensthal che scia in pantaloncini corti, scattata nel 1931 da Martin Munkacsi.
Fino al 1936, quando per diversi anni Vanity Fair interruppe le pubblicazioni, la rivista seguiva una linea fra il serio e il popolare e si vantava di commissionare ritratti di attori, musicisti e atleti - la splendida Jean Harlow di George Hurrell, Douglas Fairbanks e Joan Crawford nel 1929 sulla spiaggia di Santa Monica - accanto ad altri grandi e famosi, Claude Monet e Augustus John, James Joyce nel celebre ritratto con benda nera sull’occhio, di Berenice Abbott, Frida Khalo, la Gertrude Stein di Man Ray, Virginia Woolf, Einstein, George Bernard Shaw, Hemingway, Rebecca West, HG Wells, DH Lawrence, Colette, Cocteau, Lubitsch, George Grosz in un ritratto borghese su sfondo espressionista. Era questo il pantheon delle celebrities, e dei fotografi, nella prima incarnazione della rivista.
Vanity Fair ricompare nel 1983, resuscitata sempre dalla Condé Nast. Un veicolo diverso alimentato da ben altri carburanti. La fiera delle vanità si allarga a politici e presidenti, militari e pop star, attrici e miliardari, atleti, e assassini. E così a nuove celebrities tra i fotografi, gli anni ’80 da Irving Penn scadono in Helmut Newton, che ritrae il barone Claus von Bulow, accusato di aver tentato di assassinare la moglie ancora oggi in coma irreversibile, in una posa arrogante in un sinistro giaccone di pelle nera. All’eleganza compiacente dei primi decenni della rivista subentra una volgarità contagiosa che annuncia la decadenza. Newton ritrae anche Margaret Thatcher, o piuttosto è la Thatcher che si fa fotografare da Newton, per un grande ritratto.
Ma nelle immagini sempre più vale ciò che afferma John Updike, ossia che la celebrity è una maschera che corrode il volto, e dovere del fotografo è sollevare la maschera per rivelare metaforicamente ciò che resta di quel viso. Ma poiché nessuna celebrity vuole essere vista per come è, all’immagine non resta che la lusinga per compiacere la potenza e la fragilità del soggetto. Lo sa bene Mario Testino, nel bel ritratto di Diana del Galles, e lo sa la star fotografa di Vanity Fair, Annie Leibovitz, che domina la seconda parte della rassegna con l’onnicomprensivo ritratto delle leggende di Hollywood e l’incisiva immagine di George W. Bush e la sua coterie alla vigilia della guerra in Afghanistan. Ma bellissimo, della Leibovitz, è un ritratto tipo dagherrotipo di Robert De Niro. Così come, in contraddittoria anti-vanità, è molto bella l’immagine di copertina del settembre 2001, di Jonas Karlsson, dei pompieri al Ground Zero. Se, per dirla con Jerome K. Jerome nei Pensieri oziosi di un ozioso, «la vanità è ciò che muove l’umanità ed è l’adulazione a ungere le ruote», tutte queste immagini sono il prodotto della complicità di Vanity Fair con i suoi soggetti. Non sempre micidiale, come nell’avvincente nudo di Julienne Moore di Michael Thompson, reclinata alla maniera della Grande Odalisca di Ingres.


LA MOSTRA
«Vanity Fair Portraits: Photographs 1913-2008». Londra, National Portrait Gallery, St Martin’s Place. Sito Internet www.npg.org.uk/press. La mostra, dopo Londra, si trasferirà a Edimburgo, Los Angeles e Canberra.

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