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Halle Berry la ribelle «Ho vinto L’Oscar ma non trovo lavoro»

L’ex Bond girl è protagonista del drammone Oltre il fuoco. «Muccino? Dovrei conoscerlo meglio»

da Roma

Sullo schermo è vedova: piange, fissa il vuoto e collassa. Nella vita ha sposato l’uomo giusto: aspetta un bambino da lui, sorride e si rilassa. Si tratta di Halle Berry, l’ultima star della Festa, ieri al lancio di Things we lost in the fire (Le cose che abbiamo perso nel fuoco, a gennaio 2008 uscirà come Oltre il fuoco), dramma sentimentale della regista danese Susanne Bier, di scena nella sezione Première. «Quant’è piacevole,a fine giornata, rincasare, lasciando fuori dalla porta il personaggio che interpreto sullo schermo», fa lei, che qui non si è divertita nel ruolo di Audrey, di colpo rimasta senza marito e con due figli da tirare su. Del resto, la sua dolente vicenda si svolge a Seattle, città molto comprensiva con i drogati («lì danno le siringhe gratis: perciò vi ho ambientato il mio film», riflette la Bier), ragion per cui il miglior amico del marito (il bel tenebroso Benicio Del Toro), che poi sarebbe un ex-avvocato eroinomane, non tarderà a trasferirsi dalla vedova, sebbene,secondo lui, vivere equivalga a «farsi». Per dare una mano alla povera donna e per elaborare il lutto, insieme a quanto resta dopo i vasti incendi dell’anima, il tossico Jerry cerca di rinsavire, facendo a meno dei buchi nelle vene: quelli nel cuore, bastano e avanzano. Cominciano, quindi, le sedute di terapia familiare e una serie di monologhi sui grandi temi esistenziali, che vedono Benicio Del Toro dare il meglio della propria espressività latina. Finalmente sgombra dal fardello della bonazza di colore, anche la Berry rincorre ogni sfumatura del sentimento, tratteggiando una figura femminile molto convincente.
E la felicità? Quella arriva, in finale, ma non è scontata. Niente capoeira, dunque,quell’esotica danza che trasformava Halle Berry nella sensuale Catwoman, donna-gatto in tutina aderente. Niente ancheggiamenti, sorgendo dal mare in bikini arancione, come ai tempi di 007, quando l’attrice emulava la Bond-girl Ursula Andress, coltello alla cintola e sguardo assassino. Ma tanta compostezza: stavolta la Berry non produce solo bebè, ma anche questo film, dove la parola-chiave è «accettare il buono». Serrando le ginocchia ambrate, sulle quali ogni tanto allunga l’orlo dell’abitino bianco in jersey, un cardigan color tabacco da mammina in attesa, l’attrice premio Oscar (per Monsterball) si racconta con semplicità. «A Hollywood è difficile ottenere parti, soprattutto se sei una donna nera: sono vent’anni che lotto e non credo che raggiungerò più la vetta, scalata con l’Oscar. Tutti pensano che, una volta vinta la statuetta d’oro, il Dio del Cinema venga a casa tua, per proporti le più stupende parti mai immaginate. Sì, i colleghi ti rispettano, ma l’Oscar non cambia la vita delle persone, soprattutto se femmine», precisa l’artista, personalmente coinvolta nella prevenzione della violenza sulle donne, perché è membro attivo di un’organizzazione che difende le donne e i loro figli, se vittime di mariti e padri maneschi.
Negli Usa è stata ospite del Letterman Show, dove, per scherzo, le hanno mostrato l’ecografia d’un pancione non suo, ma lei, molto più riservata di prima, commenta: «Non mostrerei mai, in televisione, cose così intime e private». Nel film della Bier, invece, si è lasciata andare, soprattutto nelle scene-madri, dove occorreva rendere tangibile il dolore della perdita. «Il film è molto ben sceneggiato, quindi non ho penato, per far esplodere i miei sentimenti. La scena più dura non è stata quella in cui mi comunicano che mio marito è morto, bensì quella in cui urlo a Benicio che, al posto di mio marito, avrebbe dovuto morire lui! E poi, non ci vuole tutta questa gran fantasia, per darsi al cinema: basta ispirarsi alla vita vera». Di recente, la Berry ha confessato che sarebbe un suo desiderio lavorare con Gabriele Muccino, ma ieri, forse per via d’una maggiore consapevolezza, a quattro mesi dal parto, corregge il tiro: «Muccino? Perché no? Ho lavorato con una regista danese, sarebbe ora che girassi qualcosa anche con un italiano. Gabriele è un uomo di talento, ma a Los Angeles l’ho soltanto salutato, una volta, senza però conoscerlo più da vicino».

Quasi abbonata alle parti di donna sofferente (come in Monsterball, per esempio, dove si aggirava lacera e scalza), Hall si sente attratta dal lato oscuro dell’altra metà del cielo. «È bello che una donna possa risalire la china», dice saggiamente.

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