Hamas si smentisce: non riconosciamo Israele

Gian Micalessin

Le casse sono vuote. E di soldi all’orizzonte non se ne vedono. Soprattutto se i ministri degli Esteri europei confermeranno lunedì il congelamento di tutti gli aiuti. Il primo ministro Ismail Hanyeh non ne fa mistero. Approfitta, anzi, della prima riunione dell’esecutivo palestinese per sbandierarlo ai quattro venti e far capire a «fratelli arabi» e «amici iraniani» che con le sole promesse non pagherà gli stipendi.
Ma i soldi non sono l’unico problema di Hanyeh. E forse neppure il più importante. Per averli basterebbe fare il gran passo, riconoscere Israele, rinunciare alla violenza, ratificare i trattati dell’Anp. Abbracciare insomma le tre condizioni stipulate dal Quartetto diplomatico. Forse Hanyeh, anima politica di un’organizzazione complessa e sfaccettata, sarebbe anche pronto alla marcia d’avvicinamento, ma deve fare i conti con l’ala militare, con la dirigenza di Damasco guidata da Khaleed Meshaal e con le confuse dichiarazioni del leader rivale Mahmoud Zahar a cui ha dovuto, suo malgrado, riconoscere il ruolo di ministro degli Esteri. Mercoledì Zahar, il leader di Hamas più vicino all’ortodossia dei Fratelli musulmani, aveva inviato una lettera al segretario dell’Onu Kofi Annan in cui, secondo indiscrezioni, accennava alla soluzione dei «due Stati» e alla possibilità di vivere «in pace con i propri vicini». Poche ore prima il ministro aveva messo a dura prova la propria attendibilità annunciando un invito in Cina, subito smentito da Pechino. Per gli ottimisti però la lettera parlava chiaro. Zahar abbracciava il concetto di «due Stati» varato dalla Casa Bianca ed era pronto a trattative di pace con Israele.
Come altre volte, una nottata è bastata a far svanire ogni traccia di moderazione. Ieri mattina Zahar smentiva di aver scritto la frase sui «due Stati» e giurava di non aver mai pensato alla pace con Israele. «Frasi simili non sono state usate», ha detto esibendo una copia della missiva senza le frasi citate. L’unico segno di moderazione faceva capolino quando Zahar attribuiva al governo l’intenzione di «lavorare con l’Onu e con il mondo per raggiungere una pace e una stabilità regionale basata su una soluzione giusta ed esauriente». Una frase lontana dall’assolvere le condizioni poste da quel Quartetto diplomatico a cui l’Onu partecipa con Unione europea, Usa e Russia.
Del resto era veramente difficile credere a una così rapida conversione di Zahar. «In questa terra non c’è posto per Israele», aveva detto sabato. Mercoledì aveva ribadito ai funzionari del ministero di non voler riconoscere lo Stato ebraico e di sognare un’unica grande nazione palestinese estesa dai confini giordani al Mediterraneo. Posizioni che non giovano alla salute economica dell’Anp. «La Ue sta rivedendo il suo programma di aiuti», ha già anticipato il responsabile delle relazioni esterne della Ue, Javier Solana, in vista della riunione dei ministri degli Esteri di lunedì.
Per pagare i salari degli oltre 140mila dipendenti l’Anp dovrà dunque rivolgersi altrove. Ma dove? I 55 milioni di dollari al mese promessi la scorsa settimana dalla Lega araba sono rimasti, come altre volte in passato, un miraggio. L’ultima speranza è il piano di emergenza trimestrale messo a punto dal vicepremier Nasser Eddin Shaer. In attesa della sua entrata in funzione i salariati dovranno accontentarsi di qualche bel gesto. Il primo è già stato annunciato da Hanyeh, che ha bloccato tutti gli stipendi dei ministri fino al pagamento dei salari.
Oggi, intanto, in Israele Ehud Olmert riceve dal presidente Moshe Katsav l’incarico ufficiale per la formazione del governo. Dopo l’intesa con Amir Peretz e i laburisti, che gli garantisce il controllo di 48 seggi Olmert deve ancora capire come superare quota 60 e raggiungere una solida maggioranza.

Il premier «in pectore» ha già annunciato di voler allargare l’esecutivo anche all’estrema destra russofona di Ysrael Beiteinu guidata da Avigdor Liebermann, ma la scelta rischia di far fuggire la sinistra di Meretz, e rimettere a dura prova i rapporti con i laburisti. «Ne discuterò a tempo debito», ha fatto sapere Peretz che intanto ha già rinunciato al ministero delle Finanze in cambio di quello della Difesa.

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