Hamed e il tiro libero che avvicina Usa e Iran

Se sei alto 2 metri e 20 centimetri, segnare un canestro generalmente risulta un'impresa molto facile. Se sei alto 2 metri e 20 centimetri e giochi in Nba, il campionato professionistico americano, il più competitivo al mondo, tutto lascia supporre che infilare una palla arancione in anello con annessa retina sia un gioco da ragazzi. Se però ti chiami Hamed Haddadi, hai 23 anni, e sei il primo giocatore iraniano della storia della Lega già le cose si fanno più complicate. Eppure Hamed-jan, come lo chiamano affettuosamente le migliaia di fuoriusciti persiani che abitano negli Usa da anni, il suo primo canestro nell'Nba se lo ricorderà a lungo. Non che in quell'elegante jumper a 3 metri dal canestro ci fosse qualcosa in particolare dal punto di vista sportivo. È semplicemente che quei due punti segnati contro i New York Knicks rischiano di diventare un simbolo del tentativo di normalizzazione dei rapporti fra Washington e Teheran.
La storia americana di Haddadi, rookie (ovvero giocatore al primo anno) dei Memphis Grizzlies, inizia a Pechino, e per la precisione ai Giochi olimpici. È lì che è balzato agli occhi degli scout: l'Iran è stato eliminato al primo turno, ma il centrone ha messo assieme delle cifre di tutto rispetto, ovvero 16.6 punti e 11.2 rimbalzi; una doppia-doppia mica da ridere. Molte squadre dell'Nba, sempre alla ricerca di giocatori così dotati fisicamente, hanno cercato di agganciare Hamed, ma hanno dovuto fare i conti con l'embargo che gli Usa hanno messo da anni al commercio con l'Iran. Alla fine la squadra della città di Elvis ha deciso di scommettere su di lui, gli ha offerto un contratto da più di 1 milione e mezzo di dollari l'anno e ha chiesto un permesso speciale al dipartimento del Tesoro, nella fattispecie all'Ufficio per il controllo degli assets stranieri. Che prima ha nicchiato, ma alla fine ha ceduto e ha aperto ad Haddadi le porte della Nba. A onor di cronaca, i primi sei mesi del centro iraniano non sono stati esattamente «esaltanti»: tanto avanti e indietro fra Nba e Development League, la lega gemellata dove le franchigie professionistiche mandano i giovani talenti a farsi le ossa, qualche minuto di «garbage time» in partite che Memphis non aveva possibilità di vincere, poi finalmente il primo punto con un tiro libero contro i Phoenix Suns. E in giro per gli Stati Uniti centinaia di migliaia di iraniani (o persiani-americani, come preferiscono essere chiamati) lo hanno eletto loro idolo, simbolo di un popolo che non ci sta a farsi indicare in toto come terrorista o nemico degli Usa. E allora, se dopo l'insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca parlare con il regime di Teheran non è più un tabù, sperando anche che le presidenziali iraniane portino al governo politici più moderati del presidente Ahmadinejad, Hamed Haddadi non si è nascosto e ha detto che «per ora sono qui solo per diventare un giocatore migliore, ma in futuro spero di poter agire come simbolo di pace fra i nostri Paesi». Di sicuro, ha dato qualcosa di cui essere fiero alla comunità degli emigrati che, nonostante i loro successi nel campo medico, in quello ingegneristico e in quello scientifico, sono ancora visti con sospetto per la loro provenienza.

Così, una dei gruppi etnici più ricchi e più appassionati di sport (basta pensare che i 150mila possessori di case di origini iraniane nella sola California hanno addirittura una radio in lingua farsi, Kirn-Am, che ospita un talk show sportivo), ha trovato un suo rappresentante. E Hamed li ripaga a suon di rimbalzi e stoppate, la vera specialità della casa, come ha imparato l'oro olimpico Carmelo Antony, stella dei Denver Nuggets, che se ne è viste rifilate due in poco più di 10 minuti.

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