HARTUNG l’artista che amava sconfinare

Le opere sono divise in sette sezioni studiate per ricreare gli stessi spazi del suo atelier

Una figura poliedrica, interessata a «sconfinamenti» in diversi ambiti artisti al di fuori della pittura: così viene definito Hans Hartung dai maggiori critici d’arte contemporanea. L’artista, di cui oggi sono esposte alla Triennale Bovisa 200 tele realizzate dal 1922 al 1989 (anno della sua morte ad Antibes) e numerosi disegni a china, schizzi preparatori e 50 fotografie originali, nonché materiale d’archivio, dimostra uno straordinario interesse per l’architettura e l’antropologia. Nello spazio di 1400 metri quadrati disegnato da Pierluigi Cerri le opere sfilano una ad una divise in sette sezioni, molte delle quali studiate per ricreare le stesse dimensioni dell’atelier dell’artista. La sezione di dipinti presenta diverse tecniche pittoriche nonché strumenti inusuali inventati da Hartung per arricchire la sua pittura. L’allestimento è stato progettato in funzione delle opere esposte. In alcuni casi si tratta di lavori di grandissimo formato, in altri è stata privilegiata la ricostruzione di elementi formali caratterizzanti la sua architettura. La mostra è così suddivisa: «Universo», «Il linguaggio pittorico», «La doppia immagine», «I disegni neri del dopoguerra, «Architettura I: Minorca e Parigi», «Architettura II: Antibes», «La fotografia», «Antibes. L’esposizione pittorica in un’oasi mediterranea». LA rassegna «In principio era il fulmine», a cura di Amnom Barzel e Cristiano Isnardi, mentre la ricerca scientifica è stata affidata al professor Bergman della Fondazione Hartung, colpisce lo spettatore per i molti originali e inediti provenienti da ogni parte del mondo.
Tedesco, nato a Lipsia nel 1904, Hartung cominciò la sua carriera pittorica appena diciottenne, fresco del diploma liceale preso a Dresda. Aveva studiato i classici della pittura, da Rembrandt sino agli espressionisti tedeschi come Nolde, ma li abbandonò poco dopo per un astrattismo antelitteram in cui era l’inconscio e non la simbologia a fare la parte del leone. Titolava le sue tele con delle sigle a base numerica, credeva nel carattere selvaggio e non allineato della propria arte. Nella Germania postweimeriana che si apriva al nazismo era un tipo di pittura destinata a scontrarsi con quella di regime e Hartung andò allora via dal suo Paese e scelse Minorca, la Spagna. Qui mise a frutto la sua passione per l’architettura e progettò per sé un edificio razionalista, su un promontorio che dava sul mare, che aveva qualcosa della bellezza pagana della casa malapartiana di Punta Masullo a Capri. Ironia del destino, scambiata per l’abitazione di una spia tedesca la casa venne fatta radere al suolo dal generalissimo Franco e Hartung trovò prima rifugio in Francia e poi, dopo varie peripezie, finì per arruolarsi nella Legione straniera: nel ’44 , mentre combatteva, fu gravemente ferito alla gamba destra che poi gli fu amputata. Dirà ricordando questa esperienza: «Avevo l’impressione di essere stato fregato. Gli altri artisti avevano passato la guerra rifugiati da qualche parte. Io avevo voluto fare l’eroe, ma non per passare da imbecille». Gli anni Cinquanta lo videro ricongiungersi con la moglie, Anna-Eva Bergman, da cui era rimasto separato per quindici lunghi anni, e insieme andarono a vivere a Parigi, in un edificio da lui ristrutturato in chiave modernista, la stessa che poi troverà nella dimora di Antibes, la sua casa-atelier in mezzo a un uliveto, la sua ultima e definitiva rappresentazione.
A partire dagli anni Settanta Hartung prese ad adottare una tecnica particolare, atta a sviluppare il grattage e la gestualità a lui propri approdando, con l’ausilio di pennelli opportunamente modificati (ma anche con l’utilizzo di rulli, scope e altri oggetti in grado di graffiare o di spruzzare colore puro), a un alfabeto di segni che non ha eguali nelle esperienze astratte del ’900. Di questa periodo dà conto la bella monografia di Maurizio Calvesi Hans Hartung, che esce ora per i tipi di Skira in margine alla mostra alla Galleria Cafisio Arte che la Fondazione Hartung e il suo curatore, Roberto Bigi, hanno voluto in contemporanea con la grande personale alla Triennale Bovisa.

Qui il programma proseguirà con l’evento «Timer» e le esposizioni dedicate al fotografo Rancinan e al mito dell’immagine del Che.
Hans Hartung. In principio era il fulmine. Triennale Bovisa, via Lambruschini 31, fino all’11 marzo. Info: 02-724341.

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