"Ho 80 anni e ancora voglia di picconare"

Intervista a Cossiga, presidente emerito della Repubblica: "Non mi sento vecchio, lavoro ogni attimo della mia giornata. Gli anni al Quirinale sono stati di una noia mortale". Poi aggiunge: "Sugli straccioni di Valmy Tavaroli lavora di fantasia"

"Ho 80 anni e ancora voglia di picconare"

da Roma

Tantissimi auguri, presidente Cossiga. Qual è stato il regalo più bello ricevuto per il suo 80° compleanno?
«Quello del mio nipotino, che ha quattro anni e mezzo. Io per l’occasione gliene ho fatti tre, e mio figlio al secondo s’è rifiutato di collaborare, perché dice che non bisogna indurre i bambini al consumismo. Ma alla fine siamo riusciti a tirar fuori anche il macchinone telecomandato».
Nulla ha turbato la festa di ieri, nemmeno la lettura dei giornali?
«Nulla, e i giornali non li ho proprio visti. Mi ha mandato una lettera affettuosissima il presidente Napolitano, e poi una cosa molto bella dal papa, che mi ha regalato la prima copia del suo nuovo libro, Gli apostoli, con dedica personale».
Sì, tutti abbiamo sentito la valanga di felicitazioni che ha ricevuto, e pure il pranzo con la famiglia in diretta radiofonica con torta portata da Sabelli Fioretti. Invece dei malloreddu avete mangiato carciofi alla giudìa. E lei, all’indirizzo di Armando Cossutta, ha brindato alla prima Repubblica.
«E anche al glorioso partito della Democrazia cristiana nonché al glorioso Partito comunista».
Ancora una provocazione cossighiana?
«Ma io sono entrato in Parlamento a 29 anni, De Gasperi non c’era più ma c’erano Togliatti, Almirante, Saragat, La Malfa, Malagodi, c’era Moro, Andreotti, Fanfani. Sono legato a quel mondo. E a proposito di casta, vuol sapere una cosa?»
Ma sì, la picconata dell’80°.
«Bene, rapportato al costo della vita di oggi, allora un deputato se la passava molto meglio. Io potevo andare tranquillamente tutte le sere a cenare in quel ristorante di lusso che era lì vicino a Montecitorio».
Torniamo al compleanno. Lei era già capitano di vascello, ora il ministro Maroni la nomina commissario ad honorem. Non sta accumulando troppi gradi?
«Io sono capitano di fregata: per essere promosso occorrerebbe una guerra, che sinceramente non mi sembra opportuna. Sono anche vicebrigadiere onorario dei carabinieri, e Maroni mi consegnerà il diploma di commissario della polizia di Stato a settembre, alla festa del Nocs che io ho fondato».
A proposito di gradi e titoli. Nella diretta di ieri, la ragazza in studio la chiamava dj K. Ha acquisito competenze anche in musica pop?
«Elena, io la chiamo Ilena. S’era meravigliata perché chiedendomi quale musica di sottofondo volessi, Bach o Haydn, ho risposto che preferivo Elton John. E mi ha nominato dj, con la K».
Ricorda quando sui muri scrivevano Cossiga con la K e le due S alla nazista?
«Quella scritta l’ho trovata, prima che cadesse il muro, a Berlino Ovest. C’era un gruppo di studenti di estrema sinistra che contestava, e il presidente Weiszaecker era dispiaciuto e si scusava. L’ho tranquillizzato spiegandogli che erano italiani, ce l’avevano con me»
80 anni non sono pochi...

«Posso dirle una cosa? Quando sentivo dire “quell’uomo ha 80 anni”, mi spaventavo. A me non sembra di avere 80 anni... Ma avendo in passato sofferto di una forte depressione per le cose che mi sono successe, il mio psichiatra mi ha spiegato che qualche leggera crisi d’ansia che ho, è dovuta proprio alla non corrispondenza tra l’età corporea e l’età mentale. Il corpo non segue più quel che vorrebbe la mente. Sa qual è il mio rimedio? Io non sto mai un momento senza lavorare. Mi alzo alle 6, mi metto a scrivere al computer, le cose più complesse le scrivo col pennarello come mi ha insegnato Andreotti, perché il pennarello scorre sulla carta. Se poi devo scrivere una cosa molto attenta, di diritto o di religione, allora uso la penna, perché la penna induce a pensare meglio».
Un bilancio, almeno della sua vita politica?
«Non riesco a farlo. Ho vissuto questa mia vita politica con grande semplicità, e sempre attento a non coinvolgere la mia famiglia. Mia figlia al Quirinale è venuta una volta sola; mio figlio due, la seconda perché era da quelle parti e non trovava dove fare una fotocopia: i corazzieri ai quali chiedeva del padre lo hanno preso per mitomane».
Ma lei in politica ha fatto tutto, dal sottosegretario al capo dello Stato.
«Proprio tutto no, non sono mai stato presidente della Camera. Però è vero. Ho iniziato, ed ero ragazzo, come sottosegretario alla Difesa, ed ebbi ahimè la sovrintendenza politica dell’intelligence. Ricorda Gladio? Poi ministro dell’Interno in un momento drammatico, cosa che mi ha lasciato tracce anche sulla pelle. E però, il mestiere, usiamo un termine toscano, più duro fisicamente è stato da presidente del Consiglio dei ministri».
Davvero? Non è stato più pesante al Viminale, con la tragedia di Moro?
«Non dura, però. Anche se è stata un’esperienza drammatica e intensa, ne porto ancora i segni come vede, lì c’è una struttura che risponde, polizia e carabinieri obbediscono. Mentre a Palazzo Chigi hai a che fare coi ministri, ed è dura».
L’esperienza più divertente?
«Alla presidenza del Senato».
E il Quirinale?

«Una noia mortale».
Sììì, fino a Pian del Cansiglio, ai sassolini nella scarpa e poi le picconate. Lì ha iniziato a divertirsi anche lei, o no?
«Sembrava che la classe politica non s’accorgesse di quel che stava avvenendo. La caduta del muro di Berlino cambiava il mondo, e noi credevamo che la cosa non ci toccasse. Che altro potevo fare?».
In quelle sue esternazioni, lei una volta se ne uscì elogiando un tal Di Pietro, unico magistrato che non aveva aderito allo sciopero nazionale dei suoi colleghi. Mani pulite non era nemmeno all’orizzonte, e noi giornalisti non volevamo nemmeno scriverla, quella cosa. Era una casualità oppure lei già subodorava qualcosa?
«Assolutamente no. Non sapevo nulla di lui, salvo che era l’unico magistrato italiano a non aver scioperato».
Vuol dire che il caso la porta sempre sulla pista giusta. Come per le carte del Kgb in quella sua celebre visita a Mosca?
«Per la prima volta, racconto una cosa di quel viaggio dove visitammo nella neve il cimitero dei prigionieri italiani. I nostri servizi mi avevano chiesto di appurare se il generale degli alpini Battisti, che i russi avevano trattenuto in prigionia un anno più degli altri nostri prigionieri rilasciati nel dopoguerra, fosse passato al servizio del Kgb. Credo che glielo avessero detto gli americani. Io lo chiesi a Eltsin, lui mi promise che si sarebbe informato. E al nostro ritorno da San Pietroburgo mi disse: l’onore del suo ufficiale non è stato macchiato, noi abbiamo tentato ma lui non ha mai tradito il suo paese».
Ancora un inedito, un altro solo.
«Quando andammo a Malta, io chiesi la restituzione della salma di Borg Pisani, o quanto meno conoscere il luogo dove fosse sepolto. Borg Pisani era quel giovane maltese, medaglia d’oro della nostra Marina, che partecipò allo sbarco preparatorio dell’arrivo italiano che non ci fu, giustiziato per tradimento dagli inglesi».
Il Cesare Battisti della guerra che però abbiamo perso, dimenticato da tutti.
«Appunto. Credevo non dovessero esserci problemi, la nostra Marina ci teneva e il governo maltese era nazionalista, tutt’altro che anti italiano. Ma il governo maltese mi rispose che di questa cosa non se ne parlava proprio, perché dovevamo ricordare che il primo bombardamento italiano ha colpito soltanto maltesi, senza fare alcun danno agli inglesi».
La cosa di cui va più orgoglioso?
«Una cosa che non piacerà ai pacifisti: l’aver schierato i missili a Comiso in risposta alla provocazione di Breznev. Segnò l’inizio del crollo dell’Unione sovietica».
E quello di cui più si pente?
«L’aspra irruenza della mia indole sarda. La prima persona a cui ho chiesto scusa è stato Occhetto che avevo definito zombie coi baffi. Mi illuminarono i miei figli, dicendomi: come ci sentiremmo noi, se qualcuno dicesse una cosa simile di te?».
Da Gladio, chiudiamo con Tavaroli. È vero che l’operazione “gli straccioni di Valmy”, il passaggio di Mastella a sinistra, fu finanziato gli industriali telefonici?
«Quel ragazzo lavora di fantasia, avrà visto che a me piacciono i telefonini, che la Nokia mi invitava in Finlandia, la Ericsson in Svezia, e ha dedotto che prendevo soldi da loro.

Capisco, se avesse detto Colaninno, ma che interessi potevano avere quelli, in quell’operazione politica? L’unico costo che ha sopportato, è stato quello delle telefonate. E però ho telefonato a Mastella, che curava gli aspetti organizzativi: Clemè, mi devi dare la mia parte».

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