I "cuori rossi" della terza guerra civile italiana

Dalla strage di Stato di Portella della Ginestra al G8 passando per gli scontri fuori dagli stadi: cinquant’anni di violenza giovanile

Dopo “Cuori neri” uscito qualche anno fa per i tipi di Sperling & Kupfer e nato dalla penna di Luca Telese, tocca adesso a “Cuori rossi” (Newton Compton, pp. 500, euro 16,90) di Cristiano Armati seconda tessera di un mosaico che completa il ritratto di anni tragici vissuti fra contestazioni studentesche e blocchi di due frontiere: i neri e i rossi, appunto. Mezzo secolo di storia italiana del dopoguerra riemerge così dal lontano sterminio di Portella della Ginestra, prima strage politica dell’Italia repubblicana fino agli scontri del G8 a Genova in cui cade Carlo Giuliani e alla morte di Dax a Milano. Un filo rosso lungo cinquant’anni che mira a dimostrare come la contrapposizione tra destra e sinistra negli ultimi anni del secondo conflitto mondiale (dal ’43 in poi) sia tutt’altro che finita con la Liberazione. Come se, insomma, tutti quegli scontri e quegli anni, fossero stati una lunga postilla della guerra partigiana di Resistenza.

E si inizia proprio dagli undici morti di Piana degli albanesi, a parte una premessa che mette in chiaro le carte e la linea di pensiero dell’autore: la terza guerra civile italiana, dopo quella combattuta, secondo Armati, nel Risorgimento prima e nella Resistenza poi. Una guerra mai dichiarata ma che di morti ne ha fatti molti, una guerra che s’intreccia con il mistero. Una guerra che raggiunge l’apice negli anni Settanta. Un conflitto che rinasce solo sopito dopo il tranquillo decennio degli anni Cinquanta e del periodo del Boom, per riesplodere fragoroso proprio con il ’68, intrecciandosi nelle manovre oscure del golpe Borghese e della nascita dei gruppi extraparlamentari di destra e sinistra che avrebbero portato, col tempo, alla nascita delle Brigate rosse da un lato e dall’eversione nera nei suoi frastagliati groppuscoli, dall’altro.

Chi ha vissuto nelle grandi città, non può non ricordare alcuni di quei nomi, tristi lapidi su una quotidianità fatta di drammi che finivano regolarmente nell’acuire l’odio della fazione opposta precipitando così in un vortice di violenza che si autoalimentava. Il Paolo Rossi cantato da Venditti che s’intrecciava equivocamente col Pablito mundial degli anni in cui venne composta la canzone, Fausto e Iaio assassinati dai sicari fuori dal Leoncavallo, centro dell’autonomia milanese. E poi Roberto Franceschi, Claudio Varalli, Alberto Brasili, Alceste Campanile, Peppino Impastato. Per arrivare a Vincenzo Spagnolo, ucciso fuori dal Luigi Ferraris di Genova, prima di Genoa-Milan. Si chiama calcio, ma si legge politica delle frange estreme del tifo organizzato che poi è il mondo controverso degli hooligan. L’ultimo capitolo è la libertà.

Storia di un ideale, anelito irrinunciabile, traguardo verso il quale viene sospinto ogni cuore. Come quelli rossi, che battevano alla stessa stregua di quelli neri.

Perché se le idee potessero sfidarsi senza armi, la civiltà avrebbe vinto la partita. Invece è un ulteriore elenco di nomi, di croci, di morti talvolta passate tra le pagine di cronaca come meteore, ma rimaste negli animi di chi ha conosciuto quelle vittime come pietre tombali.

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