I fan del Salentoshire

Tony Damascelli

nostro inviato a Lecce

Il respiro del vento, la voce del mare, il colore della terra. E adesso il fruscio degli euro. Il tacco d’Italia si chiama Salento, si porta appress+o storie antiche e cronache moderne, ha intravisto, per una fetta di tempo recente, la faccia di mille disperati, scavati e arrugginiti come quei rottami chiamati carrette che li hanno sbarcati, che dico, scaricati lungo la costa, venendo da chissà dove, attraversando il mare e la speranza, buie entrambe, frammenti di esistenze stranite. Poi il Salento si è ritrovato a guardare le facce abbronzate e di bronzo dei nuovi turisti, ricchi e fascinosi, gli Indiana Jones di America, Giappone e soprattutto Gran Bretagna, gli esploratori che hanno trovato la pietra verde, questa fetta ultima di un Paese che non finisce mai di sbocciare anche quando sembra ormai sfiorire. Il Salento delle masserie fortificate, dei trulli e delle torri, delle pagliare e delle specchie, dimore a difesa dei turchi e saraceni che qui fecero e disfecero, edifici di pietra bianca, non semplici casali ma quasi un borgo, con la chiesa per celebrare la fede e a questa appellarsi in caso di pericolo, luci abbaglianti e ombre scure verso il mare che è di cristallo, da Otranto in giù, correndo verso Leuca che così si chiama per il colore della sua roccia e dove finisce la terra ne incomincia un’altra, meno spigolosa, risalendo, verso Ugento e Gallipoli, puntando a Taranto.
La Puglia qui è diversa dalle sue origini aride del tavoliere, l’aria non soffoca, il cielo ha bagliori veri, chiari non diafani e sotto si allarga la macchia scura della terra rossastra, oliveti, vigne, pinete, rete infinita, nel frastuono delle cicale che non vanno mai a dormire e sembrano accompagnare i dialoghi degli uomini e i loro pensieri, improvvisamente azzittendosi per poi tornare a frinire e frignare, mentre soffia il grecale o la luna è brillante al primo soffio di scirocco. Ecco spiegato il miracolo, quello che a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta ha trasformato e ancora sta cambiando questo pezzo d’Italia, il Salentoshire, per scimmiottare l’etichetta dandy incollata alla terra del Chianti, invasa da mister Smith e miss Jones, desiderosi di un’Italia che esisteva e si era nascosta tra i canneti, dimenticata, evitata, trascurata da noi furbettini frequentatori di Maldive e Mauritius piuttosto che del giardino dietro l’angolo di casa. La Puglia del sud è una cuccia delle antiche famiglie nobiliari che andavano a villeggiare a Leuca, dove esistono e resistono dimore clamorose, siti di ludi estivi, ballo, giochi con le carte, vela per mare, prima del ritorno autunnale con il calesse al castello o alla casa di famiglia per la vita quotidiana delle arti e dei mestieri, bancari e banchieri, avvocati e notai, docenti e ingegneri mentre le donne si occupavano di accudire e attendere, nel silenzio della controra. E le masserie? Erano i rifugi del bestiame, capre, pecore, poche le vacche, se non nel Murgiano, e depositi di raccolto, mai zone di svago e diporto. Così che i latifondisti camminavano (qualcuno ancora cammina) per chilometri, attraversando boschi e pinete ma mai lasciando il proprio possedimento che quasi non aveva confini; i proprietari terrieri, immensi, di corpo e di conto, dunque, non avevano messo a registro che un giorno, di un nuovo secolo, quei garage agricoli, altrove anche fortificati come scudo a invasioni e offese, quelle case di pietra e tufo, quelle distese di olivi, avvitati dal vento caldo, frustati dalla pioggia, sarebbero diventati l’oggetto del desiderio dei forestieri. Allora erano date in affitto, per legge dello Stato, ai contadini, con tanto di patto scritto («colonìa migliorataria») a ventinove anni, sul tipo dei contratti di mezzadria del Lazio, all’inizio con una divisione equa, cinquanta a testa, poi aumentando la parte del colono, sessanta a quaranta per arrivare al settantotto per cento del raccolto al contadino, il restante al padrone, quelle dimore, dicevo, sono diventate il presepe dei nuovi signori, la meta di gran moda, per fuggire al logorio della vita moderna, al tutto compreso, cioè il dj, il karaoke e l’anguriata in spiaggia.
Roba piccola, si diceva e si pagava, con cinquanta milioni si portavano a casa pietre e olive, boschi e case diroccate, roba dell’altro ieri, appunto inizio degli anni Novanta. Passata la lira è stato gabbato anche lo santo, ci vogliono euro a montagna per lo stesso acquisto e non ne trovi uno se non da qualche contadino sprovveduto. Gli inglesi hanno capito che qui c’è un’altra isola del tesoro, nel senso verace, approdo per il relax e banca per l’affare immobiliare, si scrive pietra, si legge e si paga mattone, lievitano i costi di mercato, compaiono cartelli di vendesi e affittasi, scritti a mano, in un italiano a volte precario, dietro ogni muro di cinta, si moltiplicano le agenzie e gli annunci economici, l’immobile è mobilissimo, le case portano i segni del tempo, dell’aria salmastra ma anche dell’incuria perché queste dimore non sono state più vissute, diventando soffitte, ammassi di sterpi e rifiuti. Oltre i boschi, gli uliveti, le cicale e il profumo delle lavande, ci sono fette di vite illustri di famiglie che hanno scritto la storia di queste terre, i Colosso di Ugento signori da trecento anni, il cui palazzo, dove sostò, dormì e lasciò uno scritto Giuseppe Bonaparte, è un museo vivo ma il museo è anche la loro casa, dunque porta il rispetto dei ricordi non le ragnatele di memorie smarrite; i Tamborrino che arrivarono a possedere ventunomila ettari, padroni di Alimini, laghi e masserie acquistati, con i debiti annessi ma poi cancellati, il Barone Rossi, eppoi il clero, onnipresente, i Nuzzo Morello, i Reale (onorevole Oronzo, per la cronaca politica), i Vallone banchieri a Galatina, i Venturi a Copertino, De Castris e le sue vigne, i Semeraro che non si occupano soltanto di pallone e benzine ma hanno puntato al turismo d’élite, i Filograna e Bob Memmo da camiciaio a mecenate in Roma e Montecarlo, per dire ancorªa.
Pagine importanti del Paese bello, romanzi sconosciuti ai più, come d’abitudine. Gli inglesi sono sbarcati, silenziosi, sulla luna del Salento, spinti dai voli a basso costo della Ryan air, dai reportage dei quotidiani, Times e Guardian, hanno aperto le finestre, spolverato l’arredo, nuovi coloni-padroni, con la barba bianca, il cappello di paglia, la pelle rosea, i sandali ai piedi e lo sguardo curioso per le cose che noi avevamo dimenticato. Lord Alistair McAlpine, ex tesoriere del partito conservatore del governo Thatcher, nel 2003 ha abbandonato l’isola della regina e, insieme con la moglie di origine greca Athina, si è comprato l’ex convento di Santa Maria di Costantinopoli a Marittima di Diso, sopra Castro marina, a sud di Lecce, trasformandolo in un esclusivo bed and breakfast, nove stanze «aperte».

David Howard Gavan è il console onorario di Bari e provincia, ha sangue scozzese e inglese (madre di Aberdeen, padre di Manchester), parla un perfetto, clamoroso dialetto barese: «Il Salento è diventata la seconda casa per molti inglesi; clima, mare, campagna, cibo, costi accessibili, qualcuno si è messo a fare l’imprenditore alberghiero come lord McAlpine ma soltanto per una clientela scelta, prevalentemente britannica». Orecchiette, saraghi, mustaccioli, vino primitivo e il the alle cinque, please. Dopo la regina, Dio salvi il Salento.
Tony Damascelli

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