Estratto da "I forzati della falsa cultura"
Ma poi, dico io, che senso ha vivaddio! provare invidia per l'esimio professor Umberto Eco che, sul piano del valore meramente artistico, è sempre stato di una mediocrità desolante? Una mancanza di estro inventivo e di originalità stilistica da far cascare le braccia!
L'unico merito di Eco, se di merito si può parlare, è di aver spalancato la strada verso il genere romanzesco a centinaia e centinaia di altri colleghi accademici i quali, visto il successo planetario di Il nome della rosa, si sono fatti coraggio e hanno iniziato a tirar fuori dai loro cassetti i loro insipidi compitini scolastici spacciandoli sfrontatamente per grandi romanzi.
Ragion per cui Umberto Eco, vuoi in maniera consapevole oppure inconsapevole (vuoi coscientemente o incoscientemente, tanto oramai poco importa), alla fin fine ha comunque indotto migliaia e migliaia di insegnanti italiani a trascurare Dante, Leopardi e Manzoni nell'assurda pretesa di poter diventare a loro volta dei nuovi Dante, Leopardi e Manzoni.
E questa falange di aspiranti romanzieri, si badi bene, è stata soltanto la prima ondata d'urto contro il fortino della letteratura. In quanto dopo quell'iniziale marea professorale si sono susseguite via via sempre più incalzanti come i marosi di un oceano in tempesta frotte di individui e faccendieri che con il mestiere delle lettere non avevano nulla da spartire, neanche col binocolo!
Tutta gente che nella vita aveva sempre fatto ben altro, tipo il cantante melodico o il comico piacione, il magistrato vanesio oppure il barzellettiere in disarmo
Per non parlare degli onnipresenti giornalisti televisivi, sia maschi che femmine, veri e propri fricchettoni mediatici con relativo codazzo di vecchie carampane scortate da qualche occasionale rudere del Sessantotto.
In definitiva, anche se spiace dirlo, sta di fatto che l'improvvida decisione di Umberto Eco di camuffarsi da romanziere dando alle stampe Il nome della rosa ha dapprima lusingato e infine letteralmente distrutto la Scuola italiana, minando, fin dalle fondamenta, la credibilità di intere generazioni di docenti e perfino (sembra incredibile, ma è vero!) del personale appartenente all'operoso corpo dei non docenti.
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Infanzia e giovinezza a Napoli del noto musicologo Paolo Isotta, intervistato da Silvia Truzzi per «il Fatto Quotidiano» del 21 luglio 2014 (ormai non faccio che leggere e rileggere i giornali di un tempo, è il segno che sto invecchiando).
«Allora in città c'erano due cinematografi sotterranei che aprivano alle 11 del mattino», racconta dunque Isotta.
«Ci andavano i ragazzi che facevano filone a scuola, tra cui io che ero un filonista di professione. Ci andavano anche ricchioni, femminielli, marchettari. Allora le cose più semplici si facevano al buio in sala, sulle sedie, mentre quelle più complicate si andavano a fare nei cessi».
«La guardacessi era una vecchia, che stava sempre con la corona del rosario in mano. Arrivava 'u marchettista col ricchione e lei faceva: Salve, Regina, madre di misericordia vai inte 'e seconda che è libera Vita, dolcezza e speranza nostra, salve!.
Vede è difficile che un intellettuale, soprattutto se del Nord, riesca a collocare in un contesto storico questi aneddoti. Per loro sono solo cose sozze, e non documenti di costume. La vecchia che faceva per campare quel sordido ufficio, stava tutto il tempo con il rosario in mano: per me era una santa».
Belli e a loro modo struggenti come sanno esserlo solo certi momenti dell'infanzia questi ricordi di Paolo Isotta, lingua verace e serpigna.
Anche se non sempre obiettiva, devo dire. Specie quando imputa agli intellettuali del Nord una tenace incomprensione di fondo circa il ruolo altamente educativo dei cessi, vere palestre di formazione sentimentale.
Che dire infatti di Guido Ceronetti, uomo quanto mai nordico e sabaudico? E di queste sue grame parole, in cui s'interroga sul suo destino di scrittore: «Non cambierò più mestiere? Non è mai troppo tardi, si dice. Mestieri disponibili ne restano pochi, ne dirò alcuni che mi sarebbe piaciuto fare, o mi piacerebbe intraprendere, prima della campana.
Uno è il custode di gabinetti in una grande stazione ferroviaria, Roma Termini, Milano Centrale Studierei l'umanità in transito. Non la si conosce mai abbastanza; e più la si conosce, meno la si ama. Il papa, che la ama tutta, in blocco, è chiaro che la conosce pochissimo. Nella Roma dei Cesari le foricae, i gabinetti pubblici dalle parti del Foro, erano i punti dove si andava in cerca di qualcuno che t'invitasse a cena. Gli scrocconi, i morti di fame, gironzolavano sfacciatamente intorno ai cagodromi nella speranza di un cenno caritatevole di qualche occupante con enormi anelli alle dita: Ehi, su! Andiamo a mangiare!».
Si comunica, a chi ne fosse interessato, che tali confessioni le può scovare in Briciole di colonna (Editrice La Stampa, 1987).
Che è un librino in cui Ceronetti, in alternativa al mestiere di guardiano dei cessi, maliziosamente rivela che: «Un altro mestiere che sentirei a misura è quello di manichino in una vetrina dall'eleganza veramente insolente. Non essendo mai riuscito ad essere un uomo elegante, vorrei essere almeno un manichino costosissimo».
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