Ida Di Benedetto, una «Fedra» di carattere

Giovanni Antonucci

È raro vedere sui nostri palcoscenici le tragedie di Seneca, eppure esse hanno influenzato il grande teatro elisabettiano, da Marlowe a Shakespeare fino a Webster, e i tragici francesi del Grand Siècle. La Fedra di Racine deve molto a quella di Seneca, ma anche nel Novecento la Fedra di D'Annunzio è molto senechiana e poco euripidea. Fedra di Seneca, in scena al Teatro Quirino di Roma e poi in tournée, è esemplare della sua concezione filosofica e teatrale insieme. Il suo teatro, scritto probabilmente per essere letto e non rappresentato, nasce dallo scatenamento di una passione che sorge non come un castigo inflitto dagli dei, ma come un istinto del cuore umano. La passione di Fedra per il figliastro Ippolito è trascinante, impossibile da dominare dalla ragione e per questo conduce alla morte di Fedra e Ippolito e alla disperazione di Teseo. C'è tutta la filosofia stoica di Seneca in questo suo capolavoro, unita a quell'uso della violenza e dei suoi effetti truculenti che tanto piaceranno agli elisabettiani. La Fedra esprime una filosofia della razionalità in una forma incandescente.

Nella scena lunare di Bruno Buonincontri, la regia di Lorenzo Salveti non è riuscita a darci compiutamente l'aspra poesia del testo, forse anche per la prosastica traduzione di Edoardo Sanguineti. Ida Di Benedetto è stata una temperamentosa Fedra, Ruben Rigillo un aitante Ippolito, Alberto Di Stasio un lacerato Teseo, Laura Panti un'aggressiva Nutrice.

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