ILIADE In mostra a Roma l’ira funesta di Achille

Si apre domani al Colosseo la grande rassegna archeologica sul poema omerico

Non è strano che il grande poema di fondazione dell’Occidente appaia, nell’iconografia che lo celebra, al Colosseo, simbolo della potenza dell’antica Roma, dove domani si apre la rassegna dedicata al racconto di Omero. Perché se il poema ha inizio nel cuore della battaglia, termina con un rito funebre: Ettore, il cui cadavere prima è stato oltraggiato da Achille, che lo ha devastato trascinandolo a lungo dal suo cocchio, riceve sepoltura. Da quel rito avrà inizio un’altra epopea, l’epica dei vinti e degli esuli: Enea, il troiano sconfitto, giungerà dopo travagli e peregrinazioni alla terra d’Italia, dove fonderà, secondo la volontà degli dei, la città di Roma. E l’Eneide è protagonista alla Basilica di Santa Maria alle Grazie a Milano dove Vittorio Sermonti leggerà da lunedì 11 i versi del capolavoro virgiliano.
L’Iliade non è quindi soltanto il meraviglioso poema della furia di Achille, ma anche la celebrazione del suo nemico. Omero contrappone i due eroi nel combattimento finale, Ettore supplica il semidio di restituire il suo corpo ai parenti, nel caso soccombesse, promettendo la stessa cosa in caso di vittoria. Achille risponde urlando che non lo farà mai: le fiere si uccidono, non dialogano e non si seppelliscono. Il più grande poeta greco, Omero, inscena e incarna la legge umana della compassione nel volto e nelle parole del nemico, il troiano, e attribuisce all’eroe della propria nazione la negazione della sepoltura, l’oltraggio supremo. La dea Atena non solo non è imparziale, ma inganna l’eroe troiano, che per altro è un uomo, in procinto di affrontare un semidio. Da questo momento topico dell’avventura umana nascerà l’ispirazione del capolavoro assoluto di Ugo Foscolo, I sepolcri: la sepoltura come riconoscimento della nostra fratellanza, tema centrale del carme, culminerà nella rievocazione del cadavere di Ettore.
Ma l’Iliade è anche il poema dell’infinita, per quanto inespressa - nel barbarico clangore delle lame e nel furore del sangue - dell’infinita quanto inconsapevole disperazione dell’eroe greco, cui non è dato nulla oltre la vita terrena. Achille cerca furiosamente di morire, subito, eroicamente, in battaglia, nel pieno della giovinezza e della forza. Solo in tal modo potrà sopravvivere, resistere nel tempo, nella memoria degli altri, unica sede di vita concessa all’uomo dopo il decesso, nel mondo greco. La furia barbarica di Achille esprime come mai più avverrà l’urlo dell’adolescente che si ribella al nulla. Quando nel successivo poema omerico Ulisse scenderà nell’oltretomba, traboccante di venerazione per il glorioso Achille, ne vedrà una pallida, inconsistente, disperata parvenza.
L’Iliade è l’evento cosmologico primordiale, la conflagrazione sanguinosa da cui prende forma un nuovo mondo: da una parte le rovine di una città distrutta, il tragico simbolo della fine di tutti i reami e i palazzi, sottoposti a quelle che Shakespeare definiva «le devastazioni del tempo», dall’altro l’inizio di una nuova età, che appare sorprendente a chi abbia soltanto ricordi scolastici del poema, legati alle gesta gloriose, al trucco del cavallo, alla furia, all’onore, all’orgoglio e alle meschinità degli eroi combattenti. Perché lo scenario del mondo che segue il trionfo degli Achei non vede il consolidamento della loro potenza, la pace dei vittoriosi, ma l’esilio.
Conosciamo dal successivo, leggendario poema omerico, la storia di Ulisse, la cui avventura si risolverà in un faticoso viaggio di ritorno a Itaca, la piccola isola da cui era partito, che si profilerà ai suoi occhi di naufrago molestato dagli dèi avversi, quanto incantato da seducenti apparizioni, lo scopo ultimo della guerra, la vittoria finale. Un ritorno compiuto a caro prezzo ma anche attraverso acquisizioni e esperienze meravigliose quanto spossanti, ma non dobbiamo dimenticare altri ritorni, di altri eroi, segnati da esito ferale.
Agamennone, il più valoroso, il capo della lega degli Achei, di ritorno dopo i lunghi anni di guerra alla sua reggia, appena entrato, trionfante e anelante, viene ucciso alle spalle dalla moglie Clitemnestra, che durante la sua assenza lo tradiva con Egisto. Agamennone, pur eroico nella guerra di Troia, sconta, nella tragedia di Eschilo, il peccato iniziale: per ottenere dagli dèi voti propizi all’impresa non aveva esitato a sacrificare la figlia Ifigenia. Il culmine del suo ritorno è la vendetta della moglie.
Il fato domina la scena della guerra che porterà alla distruzione di Ilio. Al fato si adeguano con incantevole e crudele naturalezza le azioni degli dei, capaci di apparire continuamente, mutando forma, spostando il corso degli eventi, ma come in obbedienza a fili invisibili che adombrano il dominio imperscrutabile della natura su tutto il vano agire umano.
Ma tornando all’esilio sarà quello di uno sconfitto a rivelarsi alla fine vincente: mentre Agamennone, il capo dei vincitori, muore trucidato, il troiano Enea, dopo lunghe traversie raggiungerà le sponde dell’Italia, dove, secondo la volontà degli dei, fonderà Roma. Che nasce quindi da un esilio, il suo fondatore è un vinto che ha dovuto abbandonare la sua terra. Il futuro caput mundi nasce quindi dai margini, dalle ceneri di una città distrutta.
Ma l’Iliade, prima ancora che tutto questo e mille altre cose insieme, è il grande poema in cui l’amore rivela la propria forza travolgente e devastante: non dimentichiamo che una donna è la causa di tutto.

I viaggi per mare, la guerra, l’odio, la vendetta, tutto per amore della bellissima Elena, non l’oggetto della contesa, ma la sua scaturigine: Elena è il principio, la causa, «colei che fece gonfiare mille vele» scriverà l’elisabettiano Marlowe, mentre il poeta latino Properzio sancì in versi memorabili tutta la vicenda della guerra e del poema: «Fu così bella che valse la pena/ che in suo onore Achille morisse,/ e Priamo lodasse la causa della guerra».

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