Gli imprenditori suicidi per non licenziare gli operai

Ma guarda, anche quei cattivoni degli imprenditori hanno un cuore. E nell’ex mitico Nordest preferiscono morire piuttosto che cassintegrare o licenziare i dipendenti. Sono già dieci i «padroni» (così la sinistra chiamava sprezzantemente gli industriali negli anni di piombo) che dall’inizio del 2009 a oggi si sono tolti la vita. L’ultimo si chiamava Paolo Trivellin, schiacciato dai debiti e da mesi alle prese con un committente che non lo pagava perché i lavori svolti in subappalto alla Caserma Ederle di Vicenza erano stati definiti «imprecisi».
Lui, alla testa dei suoi venti operai, ha inscenato una protesta davanti ai cancelli della base Usa. Poi, per la disperazione, si è impiccato a una trave a vista del suo appartamento. E così gli altri titolari di azienda e manager che hanno deciso di farla finita, lanciandosi sotto un treno o da un balcone, sparandosi al cuore o alla tempia, pur di non sacrificare i lavoratori. Perché in Italia ci sono i furbetti del quartierino, gli appalti truccati, le frodi colossali modello Fastweb, ma pure migliaia di imprenditori di cui nessuno parla e che in totale solitudine , senza aiuti e aiutini e nonostante una pressione fiscale e una burocrazia micidiali, lavorano in silenzio e rischiano ogni giorno, più che mai in tempi di recessione, l’osso del collo.
Perché va detto che ritrovarsi in mezzo alla tempesta dopo decenni di vento in poppa può portare qualsiasi capitano d’industria, grande o piccolo che sia, al tracollo e ad atti estremi. In questo caso si tratta di suicidi provocati dalla fine di un’esperienza che molti imprenditori vivono come un loro intollerabile tradimento a danni dei collaboratori : non è un'ipotesi, risulta da lettere e biglietti che spiegano l’ultimo drammatico gesto di esistenze fondate a tal punto sul lavoro che la famiglia passa in secondo piano.
Il caustico Epifani, il Cinese che l’aveva preceduto alla guida della Cgil e tutti i nemici giurati, senza se e senza ma, dell’impresa, del profitto e dell’odiato capitalismo, dovranno farsene una ragione: in genere gli imprenditori non godono sadicamente nel disfarsi delle maestranze. Anzi, soprattutto nel Nordest, dove nelle piccole e medie imprese il capo, spesso e volentieri, era partito da manovale, il trauma da fallimento e la sofferenza dovuta agli inevitabili tagli del personale possono essere fatali. E dove nessun imprenditore, se mai fosse stato modificato il famoso articolo 18, ne avrebbe approfittato per disfarsi cinicamente dei suoi uomini, persino di quanti, hanno voluto dare da intendere certi sindacati votati al pregiudizio ideologico e alla demolizione dell’impresa a prescindere, sono capaci, volenterosi e onesti. Ma quando mai, se si ha la fortuna di avere dipendenti bravi perché li si dovrebbe cacciare?
A parte questo, perché questa strage di imprenditori proprio nel Nordest, tuttora locomotiva d’Italia, e non in altre regioni ancor più colpite dalla crisi? Intanto perché qui il lavoro è tutto e chi non ce l’ha patisce più che altrove la condizione di disoccupato. Figuriamoci in quale stato di prostrazione psicologica si può venire a trovare nel regno dei self made men chi, spesso partendo da zero, magari indebitandosi e grazie a banche sempre molto disponibili fino all’11 settembre delle Torri gemelle, ha costruito dal nulla un piccolo impero. Prima un capannone, poi due, poi ancora crescita di ordini e di fatturato, il rispetto e la considerazione per chi ha avuto successo, l'export che si impenna, il benessere e la serenità di chi è arrivato alla meta. E poi improvvisamente, dopo zero scosse, un terremoto, uno tsunami economico e finanziario che ti manda da un giorno all’altro a gambe all’aria.
Non tutti riescono a sopportare la fine improvvisa e impietosa di un sogno, specie in un territorio in cui il passaggio da una civiltà rurale molto arretrata al boom economico era stato troppo brusco. E dove forse ci si vergogna in queste tristi circostanze più degli sguardi dei dipendenti in mobilità che del malcelato dolore dei familiari coinvolti nel naufragio. I giornali e le televisioni parlano di Ricucci, di Anemone e di Scaglia, e mai dei veri capitani coraggiosi finiti contro uno scoglio. Non si vedono mani tese per gli imprenditori, strangolati anche dalla chiusura dei rubinetti del credito.

Solo parole, promesse e demagogia. I più fragili non ce la fanno e passano, prematuramente, a miglior vita. Dieci suicidi in poco più di un anno sono una folle realtà. Purtroppo pare che questa sia solo la punta di un iceberg.

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