Gli interessi italiani da proteggere in Libia valgono una manovra

Non si parla solo di idrocarburi, di cui siamo in tempi normali i principali importatori: in tutto ci sono in ballo 40 miliardi

Gli interessi italiani  
da proteggere in Libia 
valgono una manovra

Gli interessi italiani in Libia, che dobbiamo tutelare, recuperare e rilanciare valgono una quarantina di miliardi di euro, in termini di nuovi investimenti, una cifra come quella della manovra di finanza pubblica. La parte più cospicua riguarda il petrolio e il gas, e coinvolge l’Eni, che ha dovuto sospendere la sua attività libica, ma è pronto a ripristinarla e, fortunatamente, ha potuto salvaguardare gran parte delle attrezzature e ha un apparato che conosce perfettamente la situazione. La Libia produce a regime circa 85 milioni di tonnellate di petrolio e, sempre a regime, quaranta miliardi di metri cubi di gas. Il valore complessivo annuo del suo petrolio, a 80 dollari il barile, è di circa 45 miliardi di dollari. Togliendo i costi e il consumo locale e aggiungendo il provento del gas, esporta circa 40 miliardi di dollari annui di idrocarburi, in gran parte in Italia. Per l’Eni il gas libico, potenzialmente, copre il 10% del suo fabbisogno che coincide, al 90%, con quello italiano. Il petrolio, invece, copre un quarto dell'approvvigionamento di Eni in tempi normali.
L’Italia, con l’accordo del 2008, ratificato nel 2009, ha versato 5 miliardi di dollari in venti anni con rate annuali di 250 milioni, come indennizzo per i costi arrecati dalla sua occupazione. Essi sono devoluti, in gran parte alla costruzione di una autostrada di 1.700 chilometri che dovrebbe attraversare tutta la Libia, collegandola all’Egitto e alla Tunisia, che dovrebbe essere costruita dalle nostre grandi imprese di lavori. Un altro progetto che interessa le nostre imprese è una ferrovia del costo di circa 300 milioni. Il trattato prevede anche borse di studio universitarie e iniziative culturali italo-libiche. Una parte di queste iniziative è cofinanziata dal governo libico.
E ci sono importanti progetti anche nel settore meccanico, elettronico, e marittimo. Principali imprese italiane che operano in Libia, oltre a quelle dell’Eni, ossia Agip, Snam, Saipem e Snam Progetti, sono Ansaldo, Edison, Tecnimont; le grandi imprese edili; Enel. E anche molte aziende medie e piccole. Comunque, le nostre realtà vi possono trovare molte nuove occasioni di lavoro, nella fase di ripresa.
Il piano di sviluppo italiano, abbandonato nel conflitto, è più che mai attuale. Esso comporta anche il controllo dell’immigrazione di coloro che dall'Africa vogliono venire clandestinamente in Italia, in cambio del nostro impegno in Libia. La dotazione di infrastrutture del Paese e la sua collaborazione con l’Italia nel piano in questione, con gli aggiornamenti opportuni, sono ancora più importanti di prima, per noi anche per la questione dei flussi migratori, e per la Libia perché costituiscono il modo per mettere d’accordo le varie etnie che fanno parte di questo Paese che rischia l’anarchia. D’altra parte, essi interessano molto per rafforzare la posizione dell’Eni che ha già investito in Libia 50 miliardi di dollari e ha progetti per altri 20 relativi a petrolio e gas. Per noi il petrolio e il gas libico sono un affare, data la vicinanza estrema della Libia e dato il basso tenore di zolfo di questi idrocarburi. Ma lo stesso vale per la Tripoli, nella logica di mercato, in quanto la sua specializzazione petrolifera comporta che essa debba importare gran parte di ciò che le occorre dall’Italia. Del resto, i libici vantano ormai molti interessi nell’economia italiana. E non si tratta solo della Juventus. Le finanze di Tripoli hanno una partecipazione nell’Eni dell’1%, nella Fiat e in Finmeccanica del 2%, in Unicredit addirittura del 4,99%. La guerra è stata voluta soprattutto dalla Francia e dalla Gran Bretagna che sperano di ricavarvi grandi vantaggi petroliferi, ma le tribù della Libia sono molteplici e tra loro rivali, e il fatto che Nicolas Sarkozy abbia particolari rapporti con il capo del governo provvisorio non implica che Parigi controlli la situazione.
Tripoli ha riserve petrolifere per 6,5 miliardi di tonnellate. C’è da esplorare e coltivare greggio per molte imprese. E ora i libici hanno bisogno di soldi per tornare alla normalità e la riapertura del gasdotto con l’Italia, in prossimità della stagione in cui il fabbisogno aumenta, è il mezzo più immediato per ottenerli.

Altrettanto vale per la riapertura dei pozzi dell’Eni con l’invio di petroliere alle nostre raffinerie. Occorre ora, perciò, che il governo assuma iniziative concrete, assieme alle imprese direttamente interessate e ai rappresentanti delle altre, per riprendere le fila della collaborazione economica.

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