Abu Omar, la Cia affossa il processo

Domani il verdetto della Cassazione sull'imam. Gli avvocati degli 007 denunciano gravi irregolarità

Abu Omar, atto finale. C'è grande, grandissima attesa oltreoceano per l'ultimo capitolo della saga processuale che ruota intorno al misterioso sequestro, il 17 febbraio 2003 a Milano, dell'ex imam Abu Omar. Vicenda che oltre ad aver azzerato (quanto a fiducia) i già complicati rapporti di intelligence fra la Cia e i nostri servizi segreti, ha prodotto ferite «politiche» fra le due amministrazioni a tutt'oggi non ancora rimarginate. E il nervosismo, inutile negarlo, in queste ore è altissimo negli States. Domani infatti la quinta sezione della corte di Cassazione, presieduta da Gaetanino Zecca, dopo un lungo rinvio finalizzato a riflettere meglio proprio sulle posizioni degli «americani», dovrà dire se gli agenti Cia (e del Sismi) devono pagare per il rapimento illegale di un cittadino straniero secondo la pratica delle extraordinary rendition. E soprattutto dovrà stabilire se il processo a loro carico si è svolto correttamente, con giustizia, con tutte le garanzie per imputati contumaci. In caso contrario, occorrerà rifare tutto daccapo col rischio della prescrizione in agguato a febbraio 2013. Ipotesi, quest'ultima, nemmeno tanto peregrina stando alla clamorosa richiesta del luglio scorso del pg Oscar Cedrangolo, che evidenziando un «difetto di notifica» ai difensori degli 007 di Langley durante il processo di primo grado - che ha visto gli agenti condannati a sette anni di carcere, nove per il capo Robert Seldon Lady - ha chiesto l'annullamento con rinvio. Stessa richiesta avanzata per i proscioglimenti dell'ex direttore del Sismi, Nicolò Pollari, del suo vice operativo, Marco Mancini, e di tre capicentro, con conferma delle condanne dei funzionari Pio Pompa e Luciano Seno.
Lo stesso presidente Zecca, per sua stessa ammissione, era rimasto molto colpito da quanto esposto dalle avvocatesse Alessia Sorgato e Matilde Sansone riguardo al fatto che in Cassazione si era fin lì parlato solo di segreto di stato e poco dei 23 agenti Cia (tre sono fuori perché coperti da immunità). Tanto da decidere di non entrare subito in camera di consiglio ma di rimandare di mesi la sentenza su una materia così complessa, proprio per valutare le posizioni degli indagati statunitensi.
I due difensori degli agenti Cia avevano sollevato il problema della «palese e grande ingiustizia» processuale per i loro assistiti, messi tutti in un unico frullatore, senza distinzione di ruoli e di condotte, in barba all'assioma della «personalità» della responsabilità penale, eppoi condannati indifferentemente, in gruppo, come se «non fosse importante stabilire ciò che per i giudici d'appello importante non è: “sapere chi ha fatto che cosa“...». Condannati peraltro, hanno insistito le due legali, sulla base di notifiche irregolari, perché inoltrate a «latitanti» che in realtà - secondo le difese e il pg - latitanti non erano, essendo invece semplicemente residenti all'estero, ovvero negli Usa, dove tutti vivono abitualmente. Lo status di latitanti ai 23 agenti Cia l'aveva dato il gip di Milano, basandosi su un verbale di vane ricerche della digos, che però aveva «cercato» gli americani soltanto in Italia, in particolare negli hotel in cui avevano soggiornato due anni prima. E a quel punto, si è proceduto con la notifica di ogni atto ai difensori d'ufficio. Il problema è che secondo Sansalone (che difende alcuni dei presunti «preparatori» del sequestro, condannati con appena due paginette in sentenza) non c'era alcuna intenzione volontaria di sottrarsi alla legge, tanto che 5 dei suoi assistiti avevano lasciato l'Italia prima ancora del sequestro di Abu Omar: per il legale non erano insomma fuggiti sapendo di aver commesso un reato, erano semplicemente tornati a casa propria, e nessuno li aveva mai cercati lì. La Sorgato, poi, aggiunge un elemento che dimostrerebbe l'implausibilità dello status di latitante: «La prova che non li hanno mai cercati è che io, con una banale raccomandata, ho scovato uno dei miei clienti, Vincent Fardo, a casa sua». Anche per l'agente Sabrina De Sousa, che all'epoca lavorava al consolato di Milano e che è stata condannata per il sequestro pur non avendovi partecipato in prima persona, il pg ha chiesto l'annullamento ipotizzando una violazione dei diritti di difesa nella fase iniziale del processo.

E fra le varie «anomalie» investigative l'avvocato Dario Bolognesi rimarca come l'accusa abbia visto nella De Sousa una protagonista del rapimento pilotato tant'è che sarebbe stata inviata dall'ambasciata di Roma al consolato di Milano apposta per mettere a punto il sequestro: «Abbiamo dimostrato che la mia assistita è stata trasferita a Milano prima dell'11 settembre 2001, quindi ben prima dell'inizio della nuova legislazione antiterrorismo e delle cosiddette extraordinary rendition, di cui nel 2003 è rimasto vittima Abu Omar».
In ballo, oltre all'onore, anche il portafogli: un milione e mezzo di euro di risarcimento all'imam e alla sua signora.

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