Agguato delle toghe rosse

Si può discutere di ciò che si vuole ma nel nostro "modello costituzionale" le leggi le fa il Parlamento, mentre i giudici le applicano, magari in silenzio come avviene in nazioni che hanno una tradizione democratica ben più antica della nostra

Agguato delle toghe rosse

In questo Paese, stravagante nel bene e nel male, capita spesso di rituffarsi nel passato. Le parole con cui Egle Pilla, presidente di «Area democratica», cioè l`ultima versione della corrente delle «toghe rosse», ha aperto l`assemblea generale della sua associazione, sembrano davvero un tuffo nel passato. Un mezzo grido di allarme per l`arrivo in Parlamento di una maggioranza di altro colore, ovviamente di centrodestra - in caso contrario, visto l`impianto ideologico del suo discorso, avrebbe brindato, per dirla con Gaber, a barbera e champagne - accompagnato da una serie di «critiche» e di «riserve» che riecheggiano i discorsi di certa magistratura negli ultimi 40 anni, come se lo scandalo Palamara fosse passato invano. Parla di «ridimensionamento del modello costituzionale di magistrato», se la prende con la riforma del reato di abuso d`ufficio, si scandalizza perché si parla «di separazione delle carriere» tra giudici e Pm, denuncia che il ruolo del pubblico ministero sia sempre «più compresso e sacrificato» e si addolora per la riduzione delle spese per le intercettazioni. Forse ha nostalgia del vecchio manuale della Stasi.

Ora si può discutere di ciò che si vuole o di come la si pensa, ma nel nostro «modello costituzionale» le leggi le fa il Parlamento, mentre i giudici le applicano, magari in silenzio come avviene in nazioni che hanno una tradizione democratica ben più antica della nostra. Non ci sono dubbi in proposito. Perché l`«autonomia della magistratura» non significa che i giudici debbano fare il controcanto alle leggi che approva un Parlamento espressione della volontà popolare. Tantomeno sta a loro giudicarle. Questa è stata una modifica maturata nel tempo nel Dna della nostra magistratura che non c`entra però nulla, proprio nulla, con la Carta Costituzionale. Anzi, ci fa a botte. Anche perché in questo modo è inevitabile che il magistrato si colori politicamente, mandando a ramengo uno dei concetti, tanto belli quanto vacui, di cui si fa vanto il nostro sistema giudiziario: «un magistrato non deve essere solo imparziale ma apparire tale».

P.s. A proposito ieri Marco Travaglio, che riscrive la storia a suo piacimento, mi inserisce tra coloro allontanati dalla politica dalla legge Severino. Gli rinfresco la memoria: il Senato respinse l`applicazione della Severino nel mio caso giudicando la sentenza persecutoria (un unicum); poi mi dimisi da solo (sarei potuto restare in Parlamento tranquillamente) perché nel discorso che feci in mia difesa dissi che la mia era una battaglia di principio, non la difesa di una poltrona, per cui avrei lasciato il seggio qualunque fosse stato l`esito del voto sulla mia persona. E sono uomo di parola. Di più la mia vicenda ha dato spunto anche ad una legge. Io fui assolto in primo grado, condannato in secondo da un tribunale in cui c`era un giudice che era stato ex parlamentare e sottosegretario del Pd per dodici anni, mentre il relatore della Cassazione che confermò la condanna era stato il capo di gabinetto del ministro di Grazia e Giustizia del governo Prodi. La vicenda fece scalpore e il Parlamento qualche mese fa ha addirittura approvato una legge, quella che impedisce ad un magistrato che va in politica di tornare in magistratura, proprio perché non si ripetano episodi del genere. Una legge che, di fatto, potrebbe portare il mio nome e che se ci fosse stata all`epoca mi avrebbe evitato la condanna. Una condanna che, comunque, viste le modalità con cui è avvenuta, oggi considero una medaglia.

Quanto a Travaglio non me la prendo per ciò che scrive. In una querela che gli feci per diffamazione si difese dicendo che la sua era satira. Motivo per cui ora qualunque cosa scriva non querelo, la prendo a ridere, come si fa con le battute di un comico da avanspettacolo.

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