«Buongiorno, buon lavoro a tutti, buona giornata». Capitan Schettino si muove agile e sicuro. Quando inforca gli occhiali scuri uscendo dal residence di Marina di Cecina dove si ripara tra un'udienza e l'altra, s'atteggia a divo. E non perde la spavalderia nemmeno prima di entrare in quel teatro di Grosseto, trasformato per l'occasione in tribunale. Dove l'imputato è lui. Anche se non si direbbe. Somiglia più al protagonista di un film ancora da vedere. Dolore, tragedia, morti, tutto un po' dimenticato e ora trasformato in ribalta. «Vabbuo! Sto bene, non ti preoccupar», risponde spavaldo a un fotografo.
Davvero, sembra di vederlo pavoneggiarsi, nella sua imponente uniforme bianca da comandante, sulla plancia di quel gigante dei mari che era la «Concordia». Sembra di vederlo arrivare accompagnato dall'intrigante ballerina da navi da crociera che risponde al nome di Domnica Cemortan, moldava. Lei era accanto a Schettino sul ponte di comando la sera del disastro. Ad ammirare le manovre spericolate? Lei è la donna che il giorno dopo il naufragio gli lanciava messaggi d'amore e poi, tornata a casa, tra una lacrima e un insulto, sosteneva di «non essere la sua amante». I suoi vestiti, per inciso, furono trovati nella cabina del capitano. Che in aula, nonostante tutto, mantiene il piglio di chi governa: «Fu la mia manovra a portare la nave in una zona sicura dopo l'impatto», continua a sostenere. Il procuratore di Grosseto Francesco Verusio ne è molto meno convinto: «È stata la mano del buon Dio a fare avvicinare la Costa Concordia al Giglio dopo l'urto contro gli scogli, altro che una manovra fatta da Schettino. Se quella sera non ci fosse stato quel vento la nave si sarebbe capovolta e affondata in un minuto».
Versioni opposte, ma una verità sola che secondo l'accusa sarebbe confermata dai dati estrapolati dalle scatole nere. «Anche secondo la perizia è pacifico - puntualizza il procuratore - che la Costa Concordia dopo l'impatto perse qualsiasi capacità di manovra e di essere governata. Tutto quanto sta emergendo conferma i profili di colpa che avevamo individuato».
A mettere ulteriormente nei guai il capitano ci sono poi le intercettazioni dei carabinieri. Lo ascoltarono mentre parlava al telefono quando fu portato nella caserma di Orbetello, all'indomani del naufragio. Ce l'aveva con Mario Palombo, l'ammiraglio in pensione residente al Giglio, per cui avrebbe tentato il fatal «inchino». «Piè che Piè che ti devo dire, mi ha rotto il cazzo», dice Schettino al suo amico riferendosi a Palombo (chiamato per l'esattezza «Palombi»). «Andiamo a salutare il Giglio, andiamo a salutare il Giglio Stava uno scoglio lì sporgente e non l'abbiamo visto e ci siamo andati su». «Mi sono fidato della carta nautica e del Palombi che mi ha chiamato». Peccato che come dimostra l'audio della scatola nera fu lui a far chiamare Palombo dal cameriere di bordo, il maitre Antonio Tievoli. Il capitano prova a scaricare responsabilità un po' qua un po' là.
Come quando sostiene (lo mise a verbale in luglio) che sarebbe stato il capo dell'Unità di crisi di Costa Crociere, Roberto Ferrarini, a ordinargli di prendere tempo prima di chiamare la Capitaneria e far intervenire rimorchiatori perché se no ci mangiano la nave».La terza udienza finisce poco dopo le cinque del pomeriggio. Tutti fuori. Tranne Schettino e il collegio dei sui avvocati. In riunione dentro il teatro-bunker. Forse per studiare una nuova difesa.
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