E Ingroia scappa in Guatemala per un anno

L'ombra di Loris D'Ambrosio si allungherà fino in Guatemala. Non gli darà scampo. Lo braccherà nell'ufficio dell'Onu dove il Csm, accogliendo una sua domanda, ha deciso di spedirlo tra le polemiche di chi ha votato per toglierselo di torno. Lo inseguirà per giorni, settimane, mesi perché le parole del capo dello Stato stavolta sono pietre lanciate verso la «sua» inchiesta e chi ha cavalcato una campagna di veleni. Ha finito per mettersi contro tutto e tutti, il pm Antonio Ingroia. È arrivato a scontrarsi col Quirinale per via di telefonate che una volta c'erano e un'altra no, che erano nell'inchiesta-madre sui patti Stato-mafia anzi no erano in un'altra collegata, che non dicevano niente ma invece direbbero molto. La toga partigiana s'è inimicata i colleghi del Csm, addirittura dell'Anm che gli ha negato solidarietà, per non dire del suo capo Messineo, o del pm Guido, o del lontano procuratore di Nola, Mancuso, bruciato nella scalata alla procura di Napoli per la divulgazione di alcune telefonate col colonnello De Donno intercettate e depositate, pure queste, nel fascicolo di Ingroia. Anche «l'icona antimafia» (il copyright è del pm) Massimo Ciancimino non sa che pensare del magistrato che un tempo credeva in lui, come non lo seguono più da un pezzo i sostituti nisseni impegnati a indagare sulle stragi. Persino i più gettonati antiberlusconiani iniziano a storcere la bocca per l'accanimento a perseguire l'ex premier (ripetutamente uscito a testa alta dalle inchieste di mafia).
E dunque. Che Ingroia vada a quel paese, in Guatemala. Non ce l'avrebbero mandato mai che lo venerano senza se e senza ma: dal popolo delle agende rosse ad Antonio Di Pietro (ma non tutti i dipietristi) dal pubblico di Annozero fino al fratello scatenato di Paolo Borsellino, Salvatore, che nel momento di massima contrapposizione tra poteri dello Stato ha pensato di gettare altra benzina sul falò istituzionale chiedendo di acquisire ugualmente le intercettazioni tra Mancino e Napolitano. Ai detrattori di Ingroia è sembrato parlasse a nome della pubblica accusa, ma ai sentori non c'è riscontro e dunque non c'è nemmeno la prova di quel che gli vanno pure addebitando al pm «talebano» (il copyright stavolta è di Dell'Utri) sui veleni e il marasma nella procura dilaniata da lotte intestine fra pm sfociate nella mancata cattura del boss Messina Denaro. Il procuratore capo Messineo, in attesa della promozione a procuratore generale, si dice abbia sopportato sin che ha potuto le scorribande di Ingroia. Pubblicamente le ha anche difese ma sotto sotto covava per quella contrapposizione senza precedenti, così che alla fine la firma sulla richiesta di rinvio a giudizio non ce l'ha messa. Il tutto, vedi le coincidenze, accadeva mentre si cristallizzava il processo a suo cognato seguito da un pm della sua stessa procura, Lia Sava (co-delegata per la trattativa che invece firmerà la richiesta insieme a Ingroia) per una storiaccia di macchinari agricoli riciclati da una cosca mafiosa vicina al clan Lo Piccolo.
Ma non c'è stato solo Messineo a sollevare perplessità sull'inchiesta-trattativa.

Precedentemente il pm Paolo Guido s'era rifiutato di firmare l'avviso di conclusione delle indagini, il 415 bis, in evidente disaccordo con le decisioni finali di Ingroia sollevando dubbi sull'effettiva «dimostrabilità» in dibattimento delle accuse contestate. Chi pensava che mandandolo a quel Paese si risolvessero tutti i problemi, locali e nazionali, sbagliava a fare i conti. Se non altro perché il mandato Onu in Guatemala dura appena un anno.

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