E l'esecutivo rottama la concertazione

Il ministro Poletti: confronto con tutti, ma alla fine decidiamo noi. Verso la riforma del lavoro giovanile

E l'esecutivo rottama la concertazione

Roma - La concertazione è morta, kaputt, game over. «Credo che per Renzi non esista». Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, anticipa l'idea del presidente del Consiglio sul rito del negoziato-governo-parti-sociali. «È nostra intenzione - prosegue - confrontarci e dialogare. Ma alla fine il governo decide: si prende le sue responsabilità e i cittadini lo giudicano per quello che fa».

Vanno in soffitta, quindi, le interminabili riunioni fra governo, sindacati, Confindustria; e la porta della Sala Verde di Palazzo Chigi (luogo deputato alla celebrazione del rito) tra breve verrà sbarrata. Finisce un'epoca.
Poletti non sembra affatto preoccupato. Al contrario. Insiste. «Al ministero è cambiata la musica». E punta a smantellare dalle fondamenta il potere del sindacato; in modo particolare, quello della Cgil. Come? Aumentando il peso specifico dei contratti aziendali, rispetto a quello nazionale: soluzione da sempre osteggiata dal sindacato «rosso», fin dai tempi di Cofferati (prima) e di Epifani (poi). «Serve un contratto nazionale con i fondamentali - spiega il ministro del Lavoro -. Poi bisogna dare la possibilità alle aziende ed alle componenti sindacali di discutere direttamente su ciò che accade concretamente nelle imprese». Una soluzione di cui si discute da una decina d'anni e che è sempre stata bloccata (o ridimensionata negli effetti) dalla Cgil.
E per essere più chiaro, il ministro si dichiara disponibile a rivedere anche la legge sulla rappresentatività sindacale nelle fabbriche. «Il cambiamento - avverte - deve riguardare tutti. Se si vuole stare nella partita bisogna avere la voglia di cambiare». Un riferimento nemmeno tanto velato alle critiche di Susanna Camusso, alle quali si sono aggiunte anche quelle di Sergio Cofferati: la riforma del lavoro di Renzi non produrrà un solo occupato in più.

«La riforma del lavoro voluta dal governo - sembra rispondergli Poletti - non dev'essere bella, deve produrre effetti. Ha un grande senso pragmatico: deve migliorare le cose senza avere una teoria da dimostrare, ma guardare ai risultati». E ricorda che negli ultimi mesi dello scorso anno il 68% dei contratti sono stati contratti a termine. «E non li abbiamo mica fatti noi». D'ora in avanti - aggiunge - gli imprenditori potranno assumere per 36 mesi, «senza correre il rischio di essere giudicati da un magistrato».
Il ministro non fa mistero di essere pronto al braccio di ferro anche con il Parlamento (dopo quello con il sindacato), pur di difendere l'impianto del decreto-lavoro. «Dialogheremo con le Commissioni ed il Parlamento, ma se qualcuno pensa di stravolgere quello che abbiamo fatto ci opporremo con tutte le forze».

E non poteva mancare qualche riferimento alla polemica (un po' stucchevole) sulla remunerazione dei manager; e di quella dell'amministratore delegato delle Fs, Mauro Moretti. «C'è una legge - osserva il ministro - verificheremo: se ha prodotto risultati e se ci sono problemi di applicazione e poi ogni cittadino valuterà se la situazione è compatibile con la propria posizione».

Ed a proposito del trattamento economico di Moretti, precisa: «serve una maggiore equità tra il trattamento medio di un lavoratore e quello di un manager rispetto a quanto fatto nel resto d'Europa - osserva Poletti - Non si può rischiare di distruggere un'impresa per pagare un bonus». Secondo Poletti, «questo tema della coerenza della remunerazione non è solo nel pubblico. Mi pare naturale che si rifletta su queste cose».

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