Fassina sbatte la porta: fuori il primo

Il viceministro dell'Economia si dimette dopo gli sfottò del segretario pd. E il premier ora teme l'effetto domino

Fassina sbatte la porta: fuori il primo

Chi l'avrebbe mai detto, che proprio lui - Stefano Fassina - sarebbe finito sugli scudi dei berlusconiani.

Eppure ieri, con quello strappo improvviso delle «dimissioni irrevocabili» dal governo, annunciate in diretta durante la conferenza stampa di Matteo Renzi, in polemica con quel «Fassina chi?» pronunciato dal segretario Pd, l'ormai ex viceministro all'Economia si è guadagnato una ola dal centrodestra. Perché, spiega Daniela Santanchè, «spiace vedere che Fassina ha più coraggio e dignità di Alfano: non si può stare al governo con chi ti umilia e ti sbeffeggia tutti i giorni». Encomio sarcastico, ovviamente, volto a dimostrare più l'irrilevanza politica degli alfaniani che la rilevanza di Fassina. E a sottolineare, come fa ad esempio Osvaldo Napoli, che le sue dimissioni sono «il primo atto di una crisi che non porterà a nessun rimpasto, ma difilato alle urne».

Di certo Enrico Letta, che ha subito chiamato il viceministro per convincerlo a ritirare le dimissioni, accusa il colpo. «Nel momento del massimo casino, in cui Renzi fa fibrillare la maggioranza e bisogna pesare ogni parola, un membro del governo avrebbe dovuto dimostrare più senso di responsabilità. Così invece si rischia l'impazzimento», ammettono a Palazzo Chigi. Non che ci sia il serio timore che basti l'uscita di scena di un viceministro, sia pur autorevole, per aprire una crisi di governo. Ma certo non è un buon viatico per un esecutivo già traballante, e per un premier che sa di dover affrontare un durissimo match che lo vede in diretta concorrenza col leader del Pd: «Perché ora la partita è tutta tra Enrico e Matteo, tra chi riesce a fare le cose e governare i processi», dice un lettiano doc.

Stefano Fassina ha preso la decisione su due piedi e senza consultare nessuno, dicono sia nel governo che nel Pd, anche tra i suoi amici «giovani turchi», provocato da quella battuta sferzante del sindaco di Firenze: «Le parole del segretario Renzi su di me confermano la valutazione politica che ho proposto in questi giorni: la delegazione del Pd al governo va resa coerente con il risultato congressuale. Non c'è nulla di personale. È questione politica». E in effetti è dall'inizio dell'anno che Fassina batte su questo tasto, e solo ieri mattina lo aveva ribadito a Repubblica: «È doveroso che la nuova segreteria del Pd segni l'agenda del governo, e anche la squadra: quella attuale è la fotografia di un Pd archiviato dal congresso. Ora c'è un altro leader». Un riconoscimento, apparentemente, ma a doppio taglio: il tentativo è quello di spingere Renzi ad occuparsi della squadra di governo, o addirittura ad avanzare proprie candidature per un rimpasto. Cosa da cui il sindaco si vuol tenere ben lontano, e sulla quale ha da tempo messo la museruola anche a chi tra i suoi era tentato dall'aprire la partita del giro di poltrone. La mossa improvvisa di Fassina punta ad accelerare il redde rationem, costringendo il sindaco ad occuparsi della squadra. E forse anche a ritagliarsi un ruolo di oppositore interno al partito, al momento del tutto vacante.

Gli alfaniani ne approfittano per dare addosso a Renzi, accusandolo di «arroganza politica» e di «scarso rispetto» per iil governo. Il renziano Lorenzo Guerini getta acqua sul fuoco: «Dispiace che Fassina esprima in questo modo il suo disagio sul governo. Non c'è motivo di fare polemiche, bisogna lavorare». Ma nel Pd le reazioni sono fredde verso Fassina. Anche quelle di chi condivide le sue posizioni critiche verso Renzi, ad esempio sul «job act». «Non lo capisco - dice Matteo Orfini - mi pare una scelta curiosa. Se fossi al governo, sarei ben felice di avere un Pd che fa politica e che evita all'esecutivo di fare errori gravi come quelli sulla legge di stabilità, che proprio Fassina aveva gestito.

E lo dico io, che notoriamente non condivido molte delle posizioni di merito di Renzi. Ma è chiaro a tutti che Renzi può fare “più uno” perché questo governo finora è rimasto sempre al “meno uno”».

Insomma, conclude con durezza il “giovane turco”, «se chi sta dentro l'esecutivo agisse un po' di più e un po' meglio, e pensasse meno a dare interviste, le cose non andrebbero come vanno. E va preso atto che, salvo rarissime eccezioni, la delegazione del Pd nel governo fa poco per brillare».

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