I prof ci provano: meno feste, così cresce il Pil

Il sottosegretario Polillo: "Anche la Germania lo fece". No di sindacati e operatori turistici: "Solo uno slogan"

RomaQuanto vale, in termini di Pil, la rinuncia a una festività? L'unica a provare a far il conto è stata Emma Marcegaglia, l'anno scorso, mentre infuriava la polemica su «fabbriche aperte sì-fabbriche aperte no» in occasione dei centocinquant'anni dell'Unità d'Italia, il 17 marzo. Secondo la presidentessa della Confindustria, una giornata lavorativa in più vale, all'ingrosso, 4 miliardi di euro di maggior prodotto interno lordo. Due giornate fanno otto miliardi, tre giornate dodici miliardi, e così via.

E quanto vale una settimana di ferie in meno nell'intero sistema economico italiano? Il conto lo ha fatto il sottosegretario all'Economia Gianfranco Polillo, sostenendo che con una settimana di lavoro in più il Paese genererebbe un punto di maggior Pil (all'ingrosso 15 miliardi di euro): «Anche la Germania - spiega Polillo - lo fece nel 2001, poi ha restituito con gli interessi i sacrifici chiesti ai cittadini. Lo faremo anche noi, restituiremo». Polillo ricorda che per i metalmeccanici anziani sono previste 5 settimane di ferie, 15 giorni di permessi retribuiti e 12 festività civili e religiose. «L'aumento dei giorni di lavoro - sostiene - è la premessa per aumentare il margine operativo, i profitti e gli investimenti delle imprese».
In realtà, a quanto filtra dalle stanze del Tesoro, i vantaggi economici di questa review festiva sarebbero assai modesti. Ma in tempi di vacche magrissime come gli attuali, ci si aggrappa a tutto. Così, quattro ministeri (Economia, Sviluppo, Funzione pubblica, Lavoro) sono all'opera per «rivedere» il calendario. Nel mirino, in particolare, le feste civili: il 25 aprile, il 1 maggio, il 2 giugno. Per quelle religiose, che affollano il nostro calendario, le cose sono più complicate, dato che coinvolgono i rapporti con la Santa Sede. Si vorrebbero spostare alla domenica successiva le festività dei Santi patroni, da San Gennaro a Sant'Ambrogio, ma si salverebbe la festa dei Santi Pietro e Paolo, patroni di Roma, in quanto «concordataria».
Ci aveva già provato, giusto un anno fa, l'allora ministro Giulio Tremonti. Fu sommerso dalle critiche dei partiti di sinistra (25 aprile), dei sindacati (1 maggio), e via andare. Il Vaticano fece muro sulle feste religiose, e la proposta finì in soffitta. Ora Monti ci riprova, ma le prime reazioni non promettono nulla di buono. Secondo la Cisl, è una «sciocchezza statistica» la relazione tra minori ferie e maggior produzione in un contesto di basso livello produttivo e assenza di lavoro. «Le imprese - spiegano al sindacato guidato da Raffaele Bonanni - stanno chiedendo ai dipendenti di utilizzare in pieno le ferie, anche quelle non ancora maturate». Dietro questa proposta, sostiene la Uil, c'è «l'idea di far lavorare di più la gente a parità di salario». Per la Confesercenti, il taglio dei giorni di festa non serve a far crescere l'economia: «L'Italia - dice il presidente Marco Venturi - ha bisogno di investimenti, innovazione e sviluppo del turismo, non di accorpamenti delle festività».

Le imprese del settore turistico capeggiano la rivolta. «Con meno festività ci sarebbe meno fatturato per le strutture turistiche, dunque meno Pil e meno gettito fiscale per lo Stato - spiega il presidente di Federalberghi Bernabò Bocca - E dire che con questa misura si possa far crescere dell'1% il Pil mi sembra soltanto uno slogan».

Il turismo rappresenta l'11-12% del prodotto interno lordo del nostro Paese, e Federturismo Confindustria ricorda che l'abolizione delle festività significherebbe un duro colpo per il settore. Al più, si potrebbero agganciare le festività infrasettimanali ai weekend, dicono alla Federturismo. C'è poi il «no» ideologico dell'Associazione partigiani: il 25 aprile, il 1 maggio e il 2 giugno «non si toccano».

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