Il razzismo degli immigrati: "Non vogliamo stranieri"

In Italia si sono rifatti una vita, ora ci criticano per le frontiere aperte

Il razzismo degli immigrati: "Non vogliamo stranieri"

Ci siamo beccati pure il razzismo d'importazione nel Belpaese che non si fa mancare mai nulla. Nel bene e nel male. Chi l'avrebbe mai detto? Diseredati stranieri, disperati in cerca di nuova vita, esuli, profughi, quelli arrivati a nuoto o nascosti nei Tir, piuttosto che in aereo camuffati da turisti, braccia da lavoro o da delinquenza. Beh, una volta al «sicuro» pure loro si combattono. Intolleranti e sprezzanti, spesso più di coloro che accusano di xenofobia. Comunità contro, questioni di razze, etnie, religioni, color della pelle, talvolta sordide rivalità paesane. «Guerra tra poveri» direbbero le anime belle. Forse, più semplicemente e banalmente, questione di umani istinti resi più feroci da una pressione sociale esplosiva, si potrebbe obiettare realisticamente.
«No se puede vivir aqui, troppi stranieri sono pericolosi», inorridisce Salvadora. «Y lo digo yo que soy negra!». Già lo dice lei che è nera. A Milano da 20 anni, ex cuoca di un console francese, cresciuta nella Milano «da bere», inorridisce camminando per via Padova, vent'anni fa strada di negozi e appendice verso il centro; oggi sorta di famigerata enclave extraterritoriale. All'amica italiana, che in questo nastro d'asfalto è costretta a viverci, dà un consiglio: «Scappa da qui, troppi delinquenti, troppi stranieri». Lei nicaraguense con cittadinanza nostrana, rasenta lo sciovinismo. Le concedessero il voto lo darebbe a chiunque promettesse di chiudere le «nostre» frontiere.
«L'etnicizzazione nei paesi anglosassoni e in particolare negli Stati Uniti si è sempre alimentata della competizione fra immigrati; tanti “vecchi” immigrati inclusi in Francia sono diventati lepenisti così come tanti terroni del nord e del sud integrati nella Padania sono diventati leghisti. E ora lo diventano anche i “riusciti” fra immigrati stranieri», scriveva il sociologo Salvatore Palidda. Aggiungendo: «La cosa di cui si parla meno, che sembra paradossale, è la salita dell'intolleranza anche interna alle popolazioni immigrate».
Somiglia alla storiella del bue che dà del cornuto all'asino. Basta incontrarli, ascoltarli questi immigrati di vecchia generazione (o di ultima) adesso magari benestanti e professionalmente inseriti per rendersi conto di quanto spesso siano loro i primi a disprezzare la «feccia» dei clandestini. Degli ultimi arrivati «che rubano, spacciano o si vendono sotto i lampioni». Gente proveniente dai loro stessi paesi. Ecco così il piccolo artigiano albanese incazzato marcio con i connazionali sbarcati sui gommoni. Il marocchino che non sopporta l'egiziano; il sudamericano che non tollera il cinese «che apre negozi dappertutto e vende schifezze»; la domestica filippina idrofoba per la concorrenza di affascinanti badanti piombate dall'Est. Tutti contro tutti in questa Babele crudele.
In corsia d'ospedale, uno a caso, uguale però a tanti altri, dove la metà del personale è frutto della globalizzazione, l'infermiera peruviana si sfoga con un paziente: «Ma com'è possibile? Io sono qui da anni, mi sono messa in regola, ho studiato, lavoro, pago le tasse. E faccio fatica a tirare avanti... E poi? Arrivano i clandestini e a loro regalate tutto, casa popolare, scuola, sanità. Non è giusto. Vi imbrogliano e voi vi fate imbrogliare.... Ah, mi raccomando: non si faccia mettere la flebo dalla mia collega, sa l'africana. Tratta i malati come bestie...». Ottimo viatico per chi già sta male.
Attoniti ci si chiede: razzismo? Se a parlare così fossimo noi, i soliti demagoghi farebbero rullare tonitruanti tamburi di condanna. Nemmeno un mese è trascorso da quando la comunità bengalese di Pisa è scesa in piazza furente dopo l'omicidio di un connazionale. Al grido di «siamo venuti in Italia per lavorare, non per essere ammazzati». Chiaro il sottinteso, l'allusione nemmeno velata, al fatto di trovarsi di fronte a un delitto di matrice razzista. «Peccato» che, poco dopo, si sia scoperto che l'assassino era un tunisino. Perfettamente integrato. E capace di uccidere lo «straniero più di lui» così, per gioco.
Ricordate, a Milano, qualche anno fa? Era estate quando un pugile ucraino scese in strada e massacrò di botte la prima donna che si trovò di fronte. Vittima una filippina, morì davanti ai passanti increduli e sgomenti. Quanti scontri, quanta violenza tra gruppi etnici diversi. Succede in carcere come fuori. Marocchini contro albanesi -22 feriti nella prigione di Capanne (Perugia)-; coltellate tra albanesi e romeni in Puglia; bande di sudamericani di seconda generazione che si combattono per le vie delle nostre città: bulgari contro romeni. Filippini contro cingalesi. L'elenco potrebbe andare avanti. «Serve un'immigrazione selettiva», suggerisce un africano elegante, qui da noi arrivato alla laurea. Su come bloccare le migliaia di disperati che approdano lungo le nostre coste, presenta la ricetta: «Vanno fermati dalle navi militari e rispediti indietro». Eccola la frontiera del razzismo.
Intanto l'Italia cosa fa? Assiste rassegnata ma impotente di fronte al buonismo a oltranza dei «salotti».

«Mare nostrum», somiglia allo spot di un prodotto indigesto. L'allarme rimbalza da Sud a Nord mentre a Palazzo si battibecca su come «richiamare» all'ordine i beceri tifosi pallonari. Allo stadio vietato insultarsi tra connazionali, fuori si spara. E lo Stato s'arrende.

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