L’ora più difficile del patriarca Bossi

Il leader non è indagato ma bastano i sospetti sulla sua famiglia per incrinarne il mito. La solidarietà di Berlusconi

L’ora più difficile del patriarca Bossi

La parola tragica e finora mai echeggiata, dimissioni, risuona soltanto per Francesco Belsito. Umberto Bossi e i suoi congiunti non sono indagati, dunque lo spadone di Maroni da Giussano non scende a ghigliottinare il capo, ma soltanto il tesoriere. Non sarà la mannaia giustizialista, però sul Senatùr ieri è cominciato a scendere il sipario. Il sospetto è gravissimo, i pm di Milano ipotizzano che l’uomo dei soldi padani abbia pagato alcune spesucce della Bossi family. «Esborsi effettuati per esigenze personali di familiari del leader della Lega Nord», hanno scritto.
Basta un semplice dubbio perché una lunga carriera politica possa incamminarsi sul viale del tramonto? Forse sì, se ti chiami Umberto Bossi, hai fondato la Lega Nord, hai sgambettato la prima Repubblica sventolando un cappio in Parlamento, e ti sei costruito un capitale politico urlando «Roma ladrona».

Dalle valli varesotte a quelle bergamasche, ieri il lamento era unico. È crollato un mito. «Il» mito. Il Bossi anti-partiti, anti-politica, anti-Stato, anti-Roma. Il primo parlamentare che ha messo in discussione l’unità del Paese, pur di prendere le distanze dal magma appiccicoso della partitocrazia romana, è sfiorato dagli stessi sospetti che aleggiano su altri partiti. Quello che voleva combattere, ora gli si rivolta contro.

Dov’è finita la «diversità» leghista? Che fine ha fatto l’Umberto estraneo al teatrino della politica, con la canottiera al posto della grisaglia, che non ossequia il capo dello Stato ma gli dà del «terùn», va in vacanza a Ponte di Legno anziché alle Maldive e ha soltanto Pontida nel cuore? Nel Carroccio molti se lo chiedono da tempo.

È una frangia non piccola, che non osa ancora contestare platealmente la leadership di Bossi, ma storce il naso - e non lo nasconde - per certe scelte del capo. E oggi è meno sconcertata degli altri nel leggere le pesanti ipotesi di reato messe nero su bianco da tre procure della Repubblica.
Nel giorno del tramonto, Bossi non si è del tutto eclissato. Non ha abbandonato la nave di via Bellerio come uno Schettino qualunque. Verso mezzogiorno è arrivato nel quartier generale del partito, una palazzina anonima alla periferia nord di Milano, scelta in ossequio ai costi e in spregio agli sfarzi altrui, perquisita poche ore prima da carabinieri e finanzieri. Si è fermato tutto il pomeriggio senza parlare con i giornalisti, chiuso con i fedelissimi Calderoli, Cota e Castelli.

Sul fortino padano è piovuta la solidarietà del Pdl, fino a ieri solido alleato di governo a Roma e in tante amministrazioni locali, oggi scomunicato da Bossi perché sostiene Mario Monti. Silvio Berlusconi si è detto «certo dell’estraneità» del Senatur: «Chiunque conosca Umberto Bossi e la sua vita personale e politica - ha scritto il Cavaliere in una nota - non può essere neanche lontanamente sfiorato dal sospetto che abbia commesso alcunché di illecito. E in particolare per quanto riguarda il denaro della Lega, del movimento al quale ha dato tutto se stesso. Perciò esprimo a Umberto Bossi la mia più affettuosa vicinanza. Sono certo che tutto si chiarirà e che verrà provata l’assoluta estraneità di Bossi e della sua famiglia a qualsiasi ipotesi di reato». Con lui Alfano, Cicchitto, Formigoni.

Due mesi fa il Senatur usò parole sgradevoli verso l’amico che lo ospitava a cena il lunedì sera ad Arcore. «Mezza cartuccia che ha paura di mandare a casa Monti», disse. «O stacca la spina a Monti o la Lega la stacca a Formigoni», insisté. Era il tentativo, scomposto e inefficace, di ricompattare un partito lacerato dalle lotte interne. Il sigillo del proprio declino. Perché da tempo il Sole delle Alpi non garantisce più la fortuna dei padani.

Il crepuscolo del Senatùr è cominciato non con l’ictus che gli ha reso difficoltoso parlare e muoversi, ma quando ha lanciato in politica il figlio Renzo «trota» con una improvvida mossa nepotista. Quando ha fatto crac la banca Credieuronord, alla quale 3.500 militanti padani avevano affidato venti milioni di euro di risparmi andati perduti. Quando sono emersi strani rapporti tra qualche suo colonnello e il banchiere Giampiero Fiorani, quello che era amico anche dei «furbetti del quartierino». Quando i suoi parlamentari si sono assegnati pensioni d’oro e oggi si oppongono a tagliarle. Quando si è appreso che i rimborsi elettorali non finivano sul territorio a finanziare la vita del partito, ma erano investiti in Tanzania, Cipro e Norvegia. Quando nel monolite padano si è aperta una breccia di contestazione che, alla resa dei conti nei congressi, rosicchia sempre maggiore consenso alla corte del «cerchio magico».

Quando Bossi è stato clamorosamente costretto a rimangiarsi la «fatwa» lanciata contro Roberto Maroni e a sacrificare uno dei suoi scudieri, Marco Reguzzoni. Quando il partito che voleva rifondare l’Italia in senso federalista ha scelto l’opposizione a fini elettoralistici. Ma la decadenza del patriarca in camicia verde si è consolidata quando nella base ha preso piede il timore che certi comportamenti non avessero nobili fini ma interessi personali.

Cioè che la Lega, in fondo, sia uguale a tutti gli altri. E che le giustificazioni complottistiche tipo «vogliono screditare l’unica forza di opposizione», oppure «Roma affossa i federalisti», semplicemente non si reggono in piedi.

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