Quando Matteo cominciò a montarsi la testa

Dalla Provincia di Firenze a Palazzo Chigi: dieci anni di giochi di prestigio

Quando Matteo cominciò a montarsi la testa

Da oggi in libreria «La grande illusione - Matteo Renzi 2004-2014 - Dalla Provincia di Firenze a Palazzo Chigi: dieci anni di giochi di prestigio» del giornalista de Il Giornale Fabrizio Boschi, prefazione del direttore Alessandro Sallusti (www.amonedizioni.it, 420 pp. 20 euro). Pubblichiamo ampi stralci del primo capitolo «Il chierichetto del Pd».

Il protagonismo di Renzi iniziò a infastidire. I padroni di casa lo guardavano con sospetto. Quando Prodi diventò presidente del Consiglio, il giovanotto si avvicinò a Rutelli, allora ministro dei Beni culturali e cominciò a frequentare il suo giro romano di persone che contano. Nel 2008 era anche lui tra i fondatori del Partito democratico di Walter Veltroni.
Il 29 settembre di quell'anno, dopo aver rifiutato una nuova candidatura, da parte del centrosinistra, per un altro mandato da presidente della Provincia, decise di buttarsi nella mischia e annunciò la sua candidatura alle primarie del Partito democratico per la corsa a sindaco di Firenze, con lo slogan «O cambio Firenze o cambio mestiere e torno a lavorare».
Un'assessora comunale piddina, ex diessina, divenne famosa per avergli sussurrato all'orecchio: «Ciccio, a me hanno insegnato che a 34 anni si rispetta la fila». Malgrado l'intimidazione lui decise lo stesso di non starsene da una parte «bono, bonino». I vecchi comunisti toscani intuirono che il ragazzotto avrebbe potuto trasformarsi in una mina vagante. Anche perché parlava già di «lotta alla casta e agli sprechi» e, soprattutto, non si era accontentato di fare ancora cinque anni da presidente della Provincia. «A me hanno detto, tu rifai il presidente della Provincia, come dire, ti si piazza. Io ho deciso di giocare tutte le mie carte sul Comune, dicendo: se perdo, torno al mio lavoro, non mi faccio piazzare da qualche parte», dice Renzi. Comunque lo lasciarono fare, convinti del suo fallimento. Nessuno avrebbe puntato un centesimo sulla sua vittoria alle primarie di Firenze.
Invece, sfidando lo strapotere rosso, sbaragliò tutti, spazzando via innanzitutto il suo ex capo nella Margherita, quel Lapo Pistelli, suo primo maestro. (...) Il suo avversario del centrodestra era la gloria calcistica della Fiorentina, Giovanni Galli, ex portiere della nazionale. Allora il coordinatore nazionale del Pdl era Denis Verdini. Molti berlusconiani ricordano che la scelta del centrodestra di candidare Galli venne considerata quasi un «regalino» al giovane prodigio Renzi, che comunque riscuoteva consensi anche da quella parte. Verdini non ha mai negato la propria simpatia per il rottamatore. Le conversazioni fra Verdini e Renzi sono dirette, senza giri di parole. «Si annusano subito. Sono fatti della stessa pasta. Sanno a memoria Il Principe di Machiavelli. A loro basta un aggettivo, non un poema, per intendersi», dice un parlamentare che li conosce bene.
(...) Al ballottaggio del 22 giugno Renzi passò con il 59,9 per cento (rumors assegnarono all'ex margheritino anche il consenso di elettori di centrodestra) e così divenne sindaco di Firenze. Un anno e mezzo dopo disse: «Non ho vinto io perché ero un ganzo, è che gli altri erano fave». (...)
Negli ultimi anni è stato più affaccendato a costruire relazioni con magistrati, nobili, porporati, industriali, banchieri e finanzieri, a fare public relations con tutto il potenziale elettorato che ad amministrare la città. Ma lui ha sempre detto: «Non uso Firenze per fare carriera, ma la carriera per Firenze. Che è una cosa diversa. Devo tutto a questa città, soprattutto dal punto di vista politico.

Non sarei Matteo Renzi, con questo carattere, se non avessi avuto la fortuna di incontrare i fiorentini». (...)
Ma i fiorentini, che lo conoscono bene, e hanno anche tremato per la sua annunciata ricandidatura a sindaco, gli hanno preso le misure da un pezzo.

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