Quel consigliere onnipresente da Contrada al caso Mancino

Quel consigliere onnipresente da Contrada al caso Mancino

Ci sono pressioni e pressioni, c’è mafia e mafia. Ieri il precipitoso dietrofront sulla grazia al superpoliziotto Bruno Contrada, oggi l’interesse a interferire nell’inchiesta scomoda sull’ex ministro Nicola Mancino. È spiccata la «sensibilità» del Quirinale e dell’entourage giuridico del presidente per certe cose collegate alle cose «politiche» di Cosa nostra, come dimostrano gli atti dell’indagine palermitana sulla trattativa, in cui sono stati intercettati giust’appunto il consigliere giuridico del capo dello Stato, Loris D’Ambrosio, e l’ex ministro nonché ex vicepresidente del Csm, accusato di falsa testimonianza. Ma si tratta di una «attenzione» che ha caratterizzato, fin da subito, il settennato di Giorgio Napolitano e l’attività del suo «spin doctor» per gli affari di giustizia, già nel 2007 impegnato a districarsi – non troppo brillantemente – tra carte e cavilli per negare la grazia a Bruno Contrada, ex numero tre del Sisde condannato senza uno straccio di un riscontro, sulle mere parole dei pentiti (il principale collaboratore venne arrestato proprio da Contrada), a 10 anni di carcere per concorso esterno mafioso. E, oggi come allora, di fronte alle domande dell’opinione pubblica, il ritornello del Colle non è cambiato granché: la presidenza della Repubblica è impermeabile alle pressioni e fedele al rispetto della Costituzione.
Nessuno oserebbe pensare diversamente, ovvio. Ma il rispetto sostanziale delle leggi può comunque suscitare qualche osservazione critica su come alcune delicatissime vicende vengono formalmente gestite. È il caso – appunto – della frettolosa chiusura (negativa) dell’iter di concessione della grazia allo sbirro palermitano. Una vicenda tutt’altro che complicata all’inizio, ma che s’ingarbuglia a mano a mano che passano i giorni, fino a chiudersi (assai male) in meno di un mese con il Quirinale che riuscì a sconfessare se stesso. La storia è presto detta: l’ex superpoliziotto è malato e rischia di morire in cella. Dopo le lettere della moglie al Quirinale, il suo avvocato, Giuseppe Lipera, si rivolge direttamente al presidente della Repubblica con una implorazione-supplica per la concessione motu proprio della grazia per motivi di salute (la stessa motivazione riconosciuta a Ovidio Bompressi, condannato a 19 anni per l’omicidio Calabresi). Siamo sul finire del dicembre 2007. Napolitano recepisce la lettera e la gira all’allora Guardasigilli Mastella per l’istruttoria. Sembra aprirsi più di uno spiraglio per Contrada, ma la notizia riservata finisce incautamente in edicola. Succede il finimondo. Le associazioni antimafia e tutti i professionisti anticlan si mettono di traverso. Inizia una violenta campagna per invitare Napolitano a tornare su suoi passi. Rita Borsellino, sorella del giudice ucciso, futuro esponente Pd, riesce a parlare addirittura col presidente della Repubblica, dopodiché lancia un segnale di vittoria. Dice di essere rassicurata. Su che cosa, però, non lo aggiunge. Qualche giorno dopo, a forza di pressioni, arriva lo stop del Presidente. E a chi sospetta che abbia ceduto alla piazza manettara, il capo dello Stato replica al solito sdegnato: è un’insinuazione volgare. La motivazione – spiega D’Ambrosio all’avvocato di Contrada - è tecnica e aderente al dettato della legge. Però in ogni caso è assai poco convincente per tempi e modi di maturazione: il Quirinale ha interpretato la supplica del difensore Lipera come una ufficiale domanda di grazia, che però è stata «sterilizzata» dalla richiesta di revisione del processo. Un cavillo burocratico, un bizantinismo beffa. Più cose fanno a cazzotti con l’evidenza. Le richieste di grazia – e questo lo sanno sia l’avvocato sia il Quirinale – vanno indirizzate al ministro della Giustizia attraverso il procuratore generale della Corte d’appello presso cui è incardinato il processo o attraverso il giudice di sorveglianza del distretto dove il detenuto è recluso. Non arrivano certo direttamente sulla scrivania del capo dello Stato che, a sua volta, le trasmette al Guardasigilli. Nessuno se n’era accorto prima? E ancora. Proprio il consigliere giuridico di Napolitano, in un precedente fax all’avvocato di Contrada del 24 dicembre 2007 aveva parlato, correttamente, di implorazione-supplica e non di domanda di grazia. Poi se ne dimentica. Perché? Alla fine una nota del Colle spegne ogni speranza. La piazza si placa, Contrada resta dentro. Da dove uscirà il 24 luglio 2008 per andare, sempre più malato, ai domiciliari.

Oggi che finalmente sorride perché il suo ex braccio destro Ignazio D’Antone ha finito di scontare la sua (ingiusta) pena, oggi che ancora si dice convinto che lo Stato gli debba dire grazie indipendentemente dalla grazia mai richiesta, Contrada evita di infierire. «Sono pur sempre un uomo delle istituzioni». Meglio tacere sul Quirinale. Nessuno più di lui sa come gira il mondo.
(ha collaborato
Simone Di Meo)

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