Quel partito di "Repubblica" che punta sempre sul perdente

De Benedetti ha voluto il quotidiano (e l'Espresso) per influenzare la politica e il caso Barca lo conferma. Ma da De Mita a Veltroni spesso ha sbagliato cavallo

Quel partito di "Repubblica" che punta sempre sul perdente

Il clamoroso incidente causato da un nuovo scherzo de «La Zanzara» (un falso Nichi Vendola spinge l'ex ministro Fabrizio Barca a lamentarsi delle pressioni con cui Carlo De Benedetti lo forzerebbe ad entrare nel governo) ripropone un antico quesito: quanto vale sulla scena politica il «partito Repubblica»? È una domanda che ha più di trent'anni e poiché, fino al 1990 posso dire di aver visto dall'interno nascere e svilupparsi quel meccanismo di autentica egemonia che ha permesso a Eugenio Scalfari (il creatore) prima e a Carlo De Benedetti (il successore editore) di intervenire in prima persona nella politica italiana.

C'è qualcosa di illegale? Certamente no, a condizione che si distingua fra compito della stampa di informazione e ruolo di una importante lobby economica, politica e intellettuale. Cito solo alcuni degli episodi salienti, a cominciare dal più noto: l'infatuazione di Scalfari per Ciriaco De Mita, che terminò con il tramonto politico del famoso «intellettuale della Magna Grecia», secondo la definizione di Gianni Agnelli. De Benedetti mi raccontò – è nel mio Guzzanti VS De Benedetti - di aver organizzato la cena in cui Scalfari poté conoscere De Mita e stringerlo in un abbraccio che poi risultò letale. Infatti, vale quel che recita la vulgata: i politici che hanno cercato o subito l'endorsement di Repubblica, sono finiti male. Tuttavia quando questa temibile corazzata si muove oppure offre protezione col suo volume di fuoco, il campo magnetico della politica viene alterato, la visione stessa dei fatti e le loro proporzioni cambiano. Repubblica tirò con scarsi risultati la volata a Romano Prodi, che fu licenziato dalla sua stessa maggioranza nel 1998 per far posto a D'Alema e alla sua guerra del Kosovo, e che poi crollò dieci anni dopo al Senato, prima di essere fatto fuori dalla nota «carica dei 101» nella corsa al Quirinale. Dopo un lungo travaglio fra D'Alema e Veltroni, il giornale scelse Veltroni perché più alla moda, più americano, trendy, botton-down, cinematografaro. E per il nostro amico «Varte», come lo chiamano a Roma, fu l'inizio della fine. Il periodo scalfariano si chiude nel 1996 quando Carlo De Benedetti, ormai padrone del gruppo L'Espresso, decide di mandare a casa il direttore e fondatore Eugenio Scalfari per insediare Ezio Mauro. L'imprenditore, se non ho capito male, ha voluto Repubblica e l'Espresso – in disaccordo con il figlio Rodolfo - per soddisfare una sua ambizione politica: avere uno strumento con cui intervenire in politica, modificandone gli assetti. Così prenderà la famosa tessera numero uno del Pd, ma prima ancora darà il suo contributo a pre-rottamare D'Alema che lui, perfettamente ricambiato, detesta. De Benedetti stabilisce anche di far fuori il dalemiano Bersani che definisce «inadeguato». A me lo dice in modo molto marcato in un'intervista che provoca il finimondo. Dunque Cidibì (come i giornalisti di Repubblica chiamano Carlo De Benedetti) scende in campo per accompagnare alla vittoria Matteo Renzi contro Bersani e il quotidiano diretto da Ezio Mauro si posiziona con tutta la sua potenza a favore del sindaco di Firenze. Si dice che Eugenio Scalfari non fosse d'accordo, ma Scalfari fa parte idealmente e umanamente dell'asse Napolitano-Monti–Letta. Il resto, è noto e sotto gli occhi di tutti. Lo scoop di Alan Friedman il quale scopre che molto prima che il presidente del Consiglio in carica Silvio Berlusconi fosse costretto a dimettersi senza essere stato sfiduciato, Monti già andava a raccontare in giro (specialmente a De Benedetti) di essere il prossimo primo ministro, permette di far combaciare ulteriori tasselli. D'altra parte è arcinota la devota e reciproca amicizia fra Scalfari e Napolitano fra i quali è sempre stato attivo un filo rosso telefonico che ha sempre funzionato nei due sensi. Il Fatto ha riferito di cene molto recenti, che testimoniano la solidità dei rapporti. Il fondatore di Repubblica tuttavia non è stato sempre amico di tutti gli abitanti del Quirinale, visto che riuscì ad eliminarne uno – Giovanni Leone costretto a dimettersi a causa dell'uragano che gli fu lanciato contro da Espresso e Repubblica – e sarebbe certamente riuscito a far fuori anche il secondo – Francesco Cossiga che secondo i piani doveva essere condotto via in camicia di forza e sostituito da un comitato di presidenza provvisorio – se una piccola coalizione di giornalisti volenterosi non si fosse opposta. (Peraltro Cossiga era anche molto amico di De Benedetti con cui poi fece pace regalandogli un coltello sardo buono per ammazzare un gigante).

È evidente che nello stato attuale della nostra democrazia – «dietro non c'è nulla, il vuoto assoluto» ha dichiarato lo stesso Fabrizio Barca – almeno due persone ritengono di poter sistemare caselle dei ministri. Uno è il presidente della Repubblica e l'altro – se è vero quel che dice Barca – sarebbe De Benedetti, il quale smentisce, ma senza sdegnarsi.

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