Quello che le toghe non dicono

Quello che le toghe non dicono

La Dreyfussizzazione di Sallusti. Lo sapevano, eccome se lo sapevano, chi era quel «Dreyfus». Sapevano che dietro lo pseudonimo con cui era firmato l'articolo incriminato si nascondeva Renato Farina e non l'allora direttore di Libero, oggi al Giornale. Erano stati allertati i giudici della Cassazione. Non si sono curati di accertarlo i giudici d'appello. Conosceva il «dettaglio» pure il giudice-querelante Cocilovo che giusto ieri, in un'intervista a Pubblico, ha confessato che gli «sembra» di ricordare che qualcosa del genere i difensori di Sallusti fecero presente: «Che Farina fosse l'autore dell'articolo - afferma il giudice - mi sembra l'avessero già detto gli avvocati di Libero durante il ricorso in Cassazione. Fuori tempo massimo, da un punto di vista giudiziario, visto che la Cassazione si pronuncia soltanto rispetto ai vizi formali».

Effettivamente il pg della Cassazione, per questa parte, non ha ritenuto ammissibile il ricorso posto che anche nel processo di secondo grado la questione «Dreyfus» non ha avuto un ruolo centrale come invece emerge nelle 52 pagine del ricorso per l'annullamento della sentenza che trasformava la pena pecuniaria in quattordici mesi di galera.

Osservava il legale: «Se dovessimo indicare a degli studenti universitari il paradigma di una motivazione inesistente, potremmo ben a ragione indicare quella della sentenza qui impugnata, che brilla non solo per la sua inusuale stringatezza ma per la parimenti insolita confusione che riesce a generare. La sentenza riafferma “la natura diffamatoria dell'articolo a firma Dreyfus” e lo fa “con riferimento alla posizione di Sallusti”...». Esercizio ragguardevole, stigmatizza il difensore, visto che non si capisce bene «in virtù di quale gioco di prestigio Dreyfus e Sallusti sarebbero la stessa persona». Il dato certo è che Alessandro Sallusti non è stato mai identificato come Dreyfus, il che «conduce di filato ad affermare che con elevato grado di probabilità la Corte territoriale è incappata in grave quanto inescusabile errore di persona, al quale non può non applicarsi la disciplina dall'art. 68 cpp», ovvero l'errore sull'identità fisica dell'imputato che avrebbe dovuto portare a una immediata «declaratoria di causa di non punibilità».

Ma c'è di più. Altro indizio che avrebbe dovuto far riflettere sulla responsabilità di Sallusti è la circostanza che nei giorni in cui l'articolo a firma Dreyfus andò in stampa Farina era già stato radiato dall'ordine dei giornalisti per la nota vicenda Abu Omar, e proprio per aver fatto scrivere Farina sotto pseudonimo, Sallusti verrà poi sospeso per due mesi.

«E guarda caso - si legge sempre nel ricorso - il periodo contestato a Sallusti va dal 20.10.2006 al luglio 2008, e gli articoli per cui è causa vengono pubblicati nel pieno di questo periodo, vale a dire il 18.2. 2007. E guarda ancora più il caso, pare proprio che lo pseudonimo adoperato da Farina per mascherare in qualche modo la propria collaborazione al giornale, senza danneggiare la Direzione, fosse proprio Dreyfus» (pagina 11). Proprio per dimostrare l'accostamento Farina-Dreyfus l'avvocato aveva allegato più articoli «che attestavano come con ogni probabilità fosse appunto “Dreyfus” lo pseudonimo adottato da Farina. È dunque evidente lo scambio di persona». Di questo abbaglio, chiosa il legale, «né il pm, il Tribunale e la Corte d'appello si sono avveduti o preoccupati. Nessuno si è premurato di accertare l'identità del soggetto nei cui confronti si procedeva penalmente e veniva poi emessa sentenza di condanna: un anno e due mesi di reclusione a una persona di cui non si aveva certezza assoluta che corrispondesse a quella effettivamente da trarre in giudizio!».

Si doveva solo provare la circostanza, «passata inosservata davanti alla Corte d'appello, che ne è parsa quasi infastidita», che Dreyfus non era Sallusti il quale non usava quello pseudonimo «non avendo alcun motivo di farlo». Difatti «un Direttore responsabile - quale Sallusti era - che pensasse di scrivere articoli sul giornale da lui diretto usando uno pseudonimo, evidentemente per stornare da sé la responsabilità dello scritto, dimostrerebbe soltanto di essere un minus habens, atteso che con l'“ombrello” della responsabilità che gli deriva dal proprio ruolo, finirebbe col rispondere verso i terzi dell'articolo da lui stesso firmato sotto pseudonimo, col rischio poi di pagare due volte, l'una come diretto responsabile e l'altra come presunto autore del pezzo (come del resto è accaduto nel caso di specie): un bel risultato da cerebroleso!».

Non appartenendo Sallusti a quest'«ultima, sfortunata categoria, va da sé che è ragionevole ipotizzare che, con la documentazione allegata, sotto lo pseudonimo di “Dreyfus” non avesse motivo alcuno di celarsi Sallusti, bensì qualcun altro, questo sì indotto a tale “mascheramento” dall'intento di sottrarsi ad eventuali pretese o rivalse da parte di terzi. Ciò nonostante, sul punto, la Corte di merito ha ritenuto di dovere spendere neanche una parola».

In sintesi: se più indizi convergenti e concordanti già allora portavano a Farina, e se la sola evidenza era che non era «per nulla certo chi si nascondesse sotto quello pseudonimo», questa vicenda ha mietuto un'altra vittima: quella del principio fondamentale, costituzionalmente tutelato, che sancisce come la responsabilità penale sia personale.

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