Scelte egoiste e autogol: le colpe della Germania nella maxi crisi europea

L’Unione a trazione tedesca ha imposto soltanto rigore e austerità dimenticando il principio di solidarietà. E quei ritardi sulla Grecia...

Scelte egoiste e autogol: le colpe della Germania nella maxi crisi europea

Il contesto, se vogliamo, è incan­tevole: una passeggiata quasi romantica in riva al mare. La spiaggia è quella di Deauville, il 18 ottobre 2010. Tutto il masochismo folle della crisi finanziaria che ha in­vestito l’area euro è iniziato lì: tutto è partito dalla dichiarazione di An­gela Merkel e Nicolas Sarkozy se­condo cui, in caso di fallimento di un qualsiasi Paese europeo, le ban­che sarebbero dovute intervenire. Bella stupidaggine autolesionista del duo Merkozy ! Uno: perché que­sta affermazione sottintendeva che gli Stati possono fallire.

Due: perché con il coinvolgimento dei creditori privati si è creata di fatto la saldatura tra crisi finanziaria e crisi del debito sovrano. Il che significa che le banche euro­pee da quel momento, nel calco­lare il valore dei titoli di Stato in portafoglio, per fare il loro me­stiere avrebbero dovuto sconta­re il rischio di fallimento dei Pae­si emittenti. Quindi svalutare. Quindi ricapitalizzare. Nel frat­tempo precipitare in borsa e ve­dere rarefarsi la liquidità, con il relativo credit crunch. Amen! Questa infausta regola si ritro­va pari pari tra i parametri, an­nunciati l’8 aprile 2011, che le banche europee devono rispet­tare per superare gli stress test cui sono sottoposte dall’Autori­tà bancaria europea (Eba). Re­quisito che, aggiunto agli obbli­ghi di capitalizzazione previsti da Basilea 3 (del 12 settembre 2010), porta il settore bancario allo stremo.

Attenzione: con ef­fetti diversi a seconda degli Sta­ti. Positivi per le banche tede­sche e francesi, che avevano i portafogli zeppi di titoli greci e hanno potuto approfittare dei meccanismi imposti dall’Euro­pa per compensare le perdite; negativi per le banche italiane, che di titoli greci in portafoglio ne avevano davvero pochi. Che strano, poi, che il criterio del va­lo­re di mercato valga solo per i ti­toli del debito pubblico e non an­che per gli altri, per esempio per i titoli tossici. Sarà forse perché anche di questi ultimi sono pie­ne le banche tedesche e francesi e una previsione in tal senso le avrebbe danneggiate?

Antefatto: il 4 ottobre 2009 si sono tenute le elezioni politiche in Grecia. Con l’insediamento del nuovo governo, guidato da George Papandreou, si scopre un buco di bilancio nei conti pubblici di Atene: il deficit, che nel 2009 era stato dichiarato al 6%, in realtà sfiorava il 13%. A di­cembre 2009 il Parlamento gre­co approva un piano di austerità ma le misure adottate non basta­no. A metà gennaio 2010 si ipotiz­zano i primi aiuti internazionali alla Grecia. Da qui l’intervento delle autorità europee, che ini­ziano a parlare malaugurata­mente di rischio contagio, e una serie di (non) decisioni e di erro­ri che si sono susseguiti per un anno e mezzo, fino all’esplosio­ne nell’autunno del 2011.

Il problema della Grecia è ef­fettivamente esistito: al di là del rendimento dei titoli di Stato, lo dimostra chiaramente anche l’andamento dei Credit default swap (Cds) sul debito sovrano, vale a dire quei contratti derivati che indicano quanto costa co­prirsi dal rischio di fallimento del Paese emittente i titoli, in questo caso la Grecia. Da poco più di 120 punti base a ottobre 2009, il valore dei Cds greci ha sfiorato quota 300 a dicembre 2009 fino a superare i 950 punti base a giugno 2010 e continuare poi sempre a crescere. Cosa è successo nel frattempo in Europa?

Conosciamo bene le decisioni ufficiali, sappiamo an­che che spesso tutto si è risolto in misure tardive e insufficienti. A riguardo, non è un caso che lo spread tra il rendimento dei tito­li di Stato di tutti i Paesi dell’area euro e i Bund tedeschi, che tanto abbiamo seguito e subito con ti­more e tremore in questi ultimi 9 mesi, sia sempre aumentato, fi­no ad esplodere, al di là di ogni fondamentale di economia o di qualsiasi squilibrio finanziario, in concomitanza di ogni appun­tamento (fallimentare) euro­peo. Notiamo che dopo il Consi­glio del 24 giugno 2011 lo spread tra titoli italiani a 10 anni e corri­spondenti tedeschi passa in po­chi giorni da 214 punti base a 332; dopo l’incontro del 21 lu­glio da 247 a 389; dopo la riunio­ne del 26 ottobre in pochi giorni da 389 a 553 e dopo il summit del 9 dicembre da 421 punti base a 528.

Solo dopo il Consiglio euro­peo del 20 febbraio, che ha dato il via libera definitivo al secondo pacchetto di aiuti per la Grecia, lo spread ha cominciato a scen­dere: da 352 punti base a 281 ve­nerdì scorso. L’Europa a trazione tedesca che abbiamo visto agire in que­sti mesi si è concentrata unica­mente su rigore e austerità men­tre è stato messo del tutto da par­te un altro principio fondamen­tale: la solidarietà redistributi­va. Tra le occhiute misure previ­ste dal Fiscal Compact e dal Six Pack,ce n’è una molto particola­re che riguarda gli squilibri ma­croeconomici: in caso di surplus della bilancia commerciale di un Paese (differenza tra il valore delle esportazioni e quello delle importazioni di merci) superio­re al 6% scatta un virtuoso mec­canismo automatico di redistri­buzione.

Sembra però che que­sta clausola sia stata scritta, in barba a qualsiasi idea di redistri­buzione dei vantaggi indotti dal­la moneta unica, da un Paese solo: la Germania, che guarda caso registra un surplus della bilancia com­merciale pari proprio a 5,9%, cioè quel decimale in meno che non fa scattare la clausola. C’è un altro elemento che ci porta a pensare che nell’ultimo anno e mezzo in Europa sia pre­valso il comportamento miope ed egoistico dei tedeschi: qual­che mese dopo la passeggiata di Deauville, in Germania le ban­che hanno cominciato a vende­re i titoli greci e dei Paesi del­l’area euro, innescando un mec­c­anismo folle che ha presto spin­to le istituzioni finanziarie degli altri Stati a fare lo stesso. Risulta­to: panico sui mercati, ma so­p­rattutto aumento della doman­da di Bund tedeschi, considerati l’unico bene rifugio in Europa, e corrispondente aumento del prezzo e riduzione del rendi­mento.

È stato così che lo spread tra i titoli di Stato emessi dalla Germania e i titoli equivalenti emessi dagli altri Paesi europei è aumentato vorticosamente. Analizzando il secondo rappor­to trimestrale di Deutsche Bank (30 giugno 2011) emerge che ri­spetto al 31 dicembre 2010, la principale banca tedesca ha ri­dotto irresponsabilmente la pro­pria esposizione nei confronti del debito pubblico greco da 1 miliardo e mezzo di euro a 1 mi­liardo (-28%) e l’esposizione in titoli di Stato italiani da 8 miliar­di a 1 miliardo (-88%). Come meravigliarsi allora del­l’esplosione dei nostri Cds, esplosione, questa, ben più gra­ve e ben più immotivata del­l’esplosione di quelli greci? Pro­prio il 30 giugno 2011 il valore dei nostri Cds registrava 171 pun­ti base, poi è iniziato a salire.

Fi­no a quota 504 il 13 settembre 2011, il giorno in cui Barroso, in un incontro a Bruxelles con Ber­lusconi, puntò il dito contro l’Ita­lia, attribuendo al nostro Paese una responsabilità, quella del­l’esplosivo valore dei Cds, che però non dipendeva in alcun mo­do­dalla nostra politica economi­ca né dai nostri fondamentali. Bene Draghi, non tanto per gli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce dell’estate-autunno ma per le due aste di credito alle banche del 21 dicembre 2011 e del 29 febbraio e la creazione di liquidità all’americana. Tutto il resto, in Europa, sono stati solo errori su errori. La nostra unica vera colpa?

Quella di non aver avuto un mini­st­ro dell’Economia e delle Finan­ze in grado di denunciare in se­de europea e all’opinione pubblica nazionale e internazionale i termini reali del­la crisi, con le re­lative responsa­bilità ( dopo tan­t­e manovre inter­ne sangue, sudo­re e lacrime, pari a 265 miliardi di euro), e di

indicare le misure eu­ropee necessarie per farvi fron­te. Che ciò sia avvenuto per inca­pacità o per calcolo personale poco importa. A pagare il conto di tanta incapacità è stato l’inte­ro Paese, e la nostra democra­zia.

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