Vede il figlio killer in tv e non regge al disonore Si uccide impiccandosi

È il padre di Carmine Venturino, il pentito che ha permesso di ritrovare i resti di Lea Garofalo

Vede il figlio killer in tv e non regge al disonore Si uccide impiccandosi

Ucciso dal disonore? Dalla vergogna rivissuta in tv? Dalla paura di una vita che non avrebbe mai più potuto tornare come prima? Giuseppe Venturino, 59 anni, operaio forestale suo malagrado assurto agli «onori» delle cronache, il perché non potrà più raccontarlo.
È morto suicida. Era il padre di un pentito, non uno qualunque ma l'uomo che permise di ritrovare, dopo anni, i resti di colei che si sapeva essere morta, Lea Garofalo, la pentita di 'ndrangheta, la donna che ebbe la forza di accusare e incastrare la sua famiglia malavitosa e quella del suo compagno. Era il lontano 1996, lei fini sotto protezione. Ma lo Stato non seppe proteggerla, né bene né abbastanza. Nel novembre 2009, vigilia di un processo che avrebbe dovuto vederla supertestimone, ma senza più «scorta», la donna sparì nel nulla. Unica traccia, le immagini di una telecamera che la riprendeva con la figlia Denise, in zona Monumentale a Milano. Un «omicidio bianco». Il cadavere introvabile, fino a quando lo scorso anno Carmine Venturino (ex fidanzato di Denise), già condannato all'ergastolo insieme con l'ex compagno di Lea, Carlo Cosco, suo fratello Vito, Rosario Curcio e Massimo Sabatino, decise di parlare
Furono le sue tardive e calcolate ammissioni a far ritrovare lo scorso anno i pochi resti della donna. Quella sera d'autunno a Milano, la banda dopo averla rapita la uccise in un magazzino di Monza, distruggendone poi il corpo col fuoco. Sono trascorsi otto mesi da quando Milano, sindaco Pisapia in testa, ne ha celebrato le esequie. Trasformando il funerale in una catarsi collettiva. Una vittima di mafia in simbolo di giustizia. Venturino figlio, grazie al pentimento (si autoaccusò anche delle scempio fatto del cadavere di Lea) si è visto scontare la pena: dall'ergastolo a 25 anni di reclusione. In quei giorni però il padre prese le distanze. Dissociandosi dalla «collaborazione« di Carmine, da quelle confessioni ricche d'accuse, e per lui di calunnie, che mai avrebbe voluto ascoltare. Dal carcere Carmine gli scriveva: «Papà non sono un infame».
Lui, dalla sua Petiglia Policastro, non si è fatto più sentire. Lo vedevano andar per campi, qualche volta al bar. Taciturno, ombroso, senza più sorriso. Dicono che una recente trasmissione televisiva, nella quale era stata rievocato il delitto, lo avesse scosso. Aveva visto gli spezzoni della ricostruzione fatta dal figlio davanti ai giudici in cui l'uomo raccontava i perché, ripeteva nomi dei mandanti, descriveva le modalità con le quali distrusse il corpo della «suocera». Per Giuseppe un'onta, l'ennesima umiliazione in questa terra di Calabria aspra e silente. Il giorno dopo, il 24 maggio, uscendo di casa, l'operaio ha voluto salutare, ha voluto sfogarsi un'ultima volta. «Così non vivo più. Basta», avrebbe mormorato mentre partiva stancamente verso Cerasara, tra oliveti e piante che profumano d'agrumi. Qui, arrivato in una zona isolata, si è impiccato.

Era ancora vivo nel momento in cui alcuni amici lo hanno trovato penzoloni. Ma da quel momento non si è più ripreso. La sua agonia è durata fino a venerdì, all'ospedale di Crotone dove si è spento senza mai aver ripreso conoscenza. Chissà se verrà pianto come vittima di mafia.

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