«Inutile cercare lo scontro Ora dobbiamo solo trattare»

Giacomo De Ferrari, rettore dell’Università di Genova. Ha ancora senso la manifestazione anti-Gelmini di domani dopo l’apertura del decreto 180?
«Siamo di fronte a una trattativa. E in effetti quando da una delle parti arriva qualche concessione, si dovrebbe entrare in una fase di riflessione. Alla prima mossa positiva di una parte dovrebbe seguire una mossa positiva dell’altra. Io invece che manifestare, cercherei di discutere sul modo di migliorare la nostra università. Altrimenti il fronte del no è fine a se stesso».
Lei come giudica il decreto 180?
«È un provvedimento a cui do credito, un fatto positivo. Non sarà un toccasana, ma mi sembra un bel passo avanti per cominciare a ragionare in funzione della virtuosità degli atenei e della razionalizzazione dei corsi di laurea con pochi studenti».
Lei si è insediato solo a novembre eppure la sua proposta di inserire nello statuto la possibilità di sfiduciare i rettori è già stata definita una svolta «epocale». Cosa ha in mente?
«Be’, penso che si sia parlato poco in questi mesi del sistema di gestione degli atenei. Io credo in una gestione presidenziale. Che vuol dire: permettetemi di governare, ma se non funziono mandatemi pure a casa».
Lei dice: più poteri, più controllo.
«Proprio così. È la mia idea di gestione degli atenei. Voglio ricordare che ci sono rettori che hanno governato per vent’anni...».
Il barone contro i baroni. Addirittura contro se stesso.
«Ma le mie proposte non finiscono qui. Anche i senati accademici dovrebbero essere meno numerosi. E poi i consigli di amministrazione. Dovrebbero essere composti prevalentemente da esterni. Come fa a valutare e giudicare un’amministrazione chi poi di fatto la amministra?».
Una vecchia storia: chi custodirà i custodi?
«Eh sì. Ne farei anche una questione di etichetta. Non mi sembra molto elegante».
Quali sono i veri mali dell’università?
«La questione del merito è cruciale. Per questo accolgo favorevolmente le aperture del ministro. Gli strumenti per applicare la meritocrazia ci sarebbero già».
Quali?
«Per esempio, a due anni dalla chiamata dei docenti, è necessaria la conferma. Questo passaggio è diventato una questione burocratica. Ma basterebbe - come ha fatto la facoltà di medicina di cui ero preside - valutare davvero la qualità del candidato. Se non è all’altezza si potrebbe anche farlo retrocedere».


E gli stipendi. Ha visto che Harvard, l’università più ricca del mondo, ha deciso di diminuirli a causa della crisi?
«Sì, ma i nostri sono i più bassi d’Europa. Il merito è la chiave del progresso dell’università».

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