L’uomo afferrò un pesante boccale e glielo scagliò in testa. Il sangue cominciò a gocciolare sulla stuoia. A quel punto la trascinò per i capelli mentre lei udì un rumore di tessuto strappato quando un pezzo di pelle le si staccò dal cuoio capelluto. La prese a pugni finché gli incisivi si piegarono all’indietro e uno di quelli inferiori le cadde. Udì uno scricchiolio provenire dal naso. Restò lì per un bel po’. Alla fine lui si chinò su di lei e l’abbracciò stretta, sul pavimento macchiato di sangue e le disse: «Mi dispiace, Shoko. Ti amo tanto. Ti prego, perdonami».
Benvenuti nello spietato e truce mondo della Yakuza, la potentissima mafia giapponese nota per gli omicidi, le lotte intestine e il controllo di attività illecite tra cui prostituzione, armi, droga, estorsione e gioco d’azzardo. E le impossibili storie d’amore. Quella che avete appena letto non è la sequenza di un film di basso consumo; è uno dei tanti episodi realmente accaduti a Shoko Tendo, figlia di un boss mafioso e autrice del best seller Yakuza Moon, tradotto in Italia con il titolo Il drago nel cuore (Garzanti, pagg. 200, euro 17,60, traduzione dall’inglese di Stefania Cherchi). Un libro pugno-nello-stomaco, una gomorra nipponica descritta in tutta la sua feroce logica - le gerarchie, i codici d’onore, le regole - in cui la giovane donna racconta che cosa significa essere la figlia di un boss. Il padre, Hisoyasu Tendo, capo dell’organizzazione finito prima in galera e in seguito a casa, alcolizzato e manesco, ha segnato per sempre la vita di Shoko. Lei stessa, diventata membro di una gang giovanile, ha conosciuto la violenza, la droga, le crisi d’astinenza, la vita «spendi e spandi» e quella sotto i ponti. E ancora carcere, riformatorio e sesso brutale prima ancora dell’amore e di un qualche sentimento costruttivo. Anche se, dice, «voglio che sia chiaro: non mi sono mai prostituita». Sguardo intrigante, aspetto fragile (in apparenza), il corpo sottile di Shoko, simile a vetro soffiato, è completamente tatuato. Sulla schiena l’immagine di Jikogu Dayo, cortigiana dell’epoca Muromachi. Con un pugnale affilato fra i denti.
Che cosa ricorda della sua infanzia?
«Avevo 12 anni, volevo emulare mia sorella maggiore che era diventata una yanki, una di quelle ragazze ribelli che marinano la scuola, si decolorano i capelli e vanno in giro su moto truccate. Entrai nel gruppo, facevo quello che avevo visto fare, trascorrevamo il tempo tra risse e droghe. Mi feci i buchi alle orecchie con un ago, iniziai a truccarmi, a laccarmi le unghie e a sniffare diluente per vernice. Non avevo ancora abbandonato la scuola».
Fu anche la sua prima volta con un ragazzo...
«Tutte le tipe del gruppo avevano perso la verginità. Come loro, non ritenevo il primo rapporto sessuale una cosa da prendere troppo sul serio. Era considerato una sorta di passaggio obbligato per diventare adulti. Non fu per nulla piacevole».
Era una ribellione nei confronti di suo padre che tornava a casa ubriaco accompagnato da donne equivoche?
«Odiavo il modo in cui si comportava. Non sopportavo di vederlo in quello stato e con quelle donne, pensavo che me l’avrebbero portato via. Mio padre mi picchiò per la prima volta a 12 anni, quando vide la piega che stava prendendo la mia vita. Ero una sbandata. Era arrabbiato per la mia condotta».
E sua madre?
«Cercava di mediare. Detestavo farla piangere, mi sentivo in colpa, ma niente poteva frenare la mia voglia di divertirmi».
Non fu solo divertimento. Lei ha conosciuto anche la prigione e il riformatorio.
«Mi accusarono di detenzione di droga, ma si trattava di un analgesico commerciale. Probabilmente fu anche il mio atteggiamento a convincere la polizia a rinchiudermi in riformatorio. Non mostravo nessun segno di pentimento e mi rifiutavo di rispondere alle loro domande. Volevo essere una dura, una che non si fa mettere in ginocchio da nessuno. Il riformatorio ad ogni modo mi è servito».
Dopo ha iniziato a frequentare uomini mafiosi e violentissimi. Perché?
«È successo per una serie di circostanze. Avevo 17 anni, la mia famiglia era diventata improvvisamente povera, mio padre si era ammalato. Divenni l’amante di un ex yakuza che ci aveva prestato dei soldi. Dovevo assecondarlo in tutto perché non avevo alternative, bisognava saldare i debiti. Era violentissimo, ricorreva agli eccitanti. In seguito ci furono altri uomini. Uno di loro inizialmente mi diceva di amarmi, poi iniziò a ingelosirsi e a picchiarmi spietatamente per cose insignificanti. Poi si scusava. Anch’io lo amavo. Lavoravo come accompagnatrice e mandavo un po’ di soldi a mia madre».
La società giapponese è ancora molto maschilista?
«Le donne vengono accettate nei posti di lavoro, ma poi ricoprono sempre ruoli secondari. La nostra cultura elogia le donne che sostengono gli uomini senza esporsi. Lo trovo meraviglioso».
Allora perché ha deciso di tatuarsi, segno distintivo degli uomini della Yakuza?
«Perché mi sento parte integrante di quel mondo. Mio padre si era tatuato la schiena così come i giovani del clan. Forse è un modo per sentirlo vicino. La questione non è tatuarsi o meno, la questione è fare ciò in cui si crede con onestà, senza curarsi delle dicerie e delle apparenze».
Oggi Shoko ha 39 anni, è single, indipendente, ma è soprattutto una donna che ha ritrovato se stessa. Scrittrice freelance, vive a Tokyo insieme alla sua bambina.
Lei, donna-guerriera con il drago nel cuore e una lama affilata tra i denti, ha trovato il coraggio di rompere il velo di omertà che avvolge la terribile mafia gialla. Ma la storia non è ancora finita. In attesa del prossimo libro.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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