«Jenufa», applausi ma che penitenza

da Milano

Che botta di desolazione, Jenufa. Pecca con un cretino bello ed ubriacone, aspetta un bimbo, il fratellastro buono del futuro padre l'ama anche lui ma la sfregia per errore, l'ubriacone non la vuole più. La madre, che teme lo scandalo, la nasconde, poi nasconde il bambino, poi lo butta nel ghiaccio: ne ritrovano il cadavere mentre lei sta per sposare lo sfregiatore: stanno per lapidarla, quando la terribile madre dice che è stata lei, allora i promessi sposi restano soli e si promettono pallida felicità.
Doppia botta alla Scala. Regìa con muri scuri grigiastri, e pochi oggetti, del genere in cui per Guglielmo Tell basterebbe una mela. Recitazione operistica tradizionale, nei costumi non interessanti di Thibault Vancraenenbroeck, con enfasi ed impacci: strano, la firma è Stéphane Braunschweig, il teatro produttore è lo Châtelet di Parigi, nomi cruscanti. Successo vivo. Ci son tre ragioni. Prima, che l'opera è bellissima. Tutta diversa da quello che potremmo immaginare dal soggetto, un drammone strappaviscere, e dalle stesse date in cui fu composta, cioè dal 1894 al 1903, il tempo in cui cuore, polmoni e declamazione dominavano la scena di mezz'Europa. Ma Leos Janácek era di tutt'altra pasta. A lui interessava auscultare la lingua della sua terra ceca e scoprire le emozioni che muovevan la pronuncia stessa delle parole, le melodie incompiute che suggerivano, le cautele e gli slanci che animavano, ed il ritmo che le sosteneva. Fra il dramma da spettacolo ed il puro dolore, poi, questa volta, lui che aveva appena perduto due bambini, si raccoglieva nel mistero del dolore. Forse incapace della tragedia del male, forse troppo immerso in una specie di religione della natura, non gli importava di allineare crudeltà e ignoranza, cercava barlumi di vero nella bellezza. La seconda è che un autore così si applaude sempre, da noi, soprattutto dopo una serata penitenziale. Ci si premia di aver fatto cultura. Non vien voglia, magari, di tornare, il sacrificio è consumato. Se il clima della recita ha una sua autenticità, come in questo caso anche se il direttore Lothar Koenig non è andato oltre l'accompagnamento, e un certo pathos cresce, tanto da dare magari disagio ma non noia, ci si sente in vacanza dal repertorio, benignamente ospiti e onestamente partecipi.
La terza è che i cantanti in questo genere d'opera passano indenni. La tessitura è ardua: senza perdere la continuità della conversazione, bisogna portarsi per vie anche tortuose nelle zone alte della voce e starci su senza compiacimenti. Se qualche cantante grida e talora ha dei cali d'intonazione, si capisce che è inferiore agli altri. Ma se lo fanno tutti, e tutti con voci non troppo suadenti, si finisce per pensare che sia uno stile e ci si adegua.

Ed era un po’ così, alla Scala: efficienti ma un po’ grezzi Jan Storei e Miro Dvorski (il bello che beve e il buono che sfregia e sposa), generosa e tenerona Emily Mager, Jenufa, tutti i personaggi principali s'arrampicavano un po’ faticosamente sul pentagramma. Nella parte della vecchia terribile, Anja Silia, gloriosa interprete di ieri, ha gridato tanto.

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