La Juve balla ma non da sola

Diego, basta la parola. Dici Diego e pensi Maradona. Ci ha provato anche Platini. E, pazienza che l’uno sia argentino e l’altro brasiliano, dunque insopportabili l’uno all’altro. Conta l’essenza dello spirito, il bello dell’anima calcistica. Diego non sarà mai Zidane o Platini, parola di monsieur. Troppo differente nel gioco. Ma ci mette il guizzo che conquista, il marchio di qualità, il gol, anzi i gol che valgono il prezzo del biglietto, la testa della classifica, la vittoria del buen ricordo. Chissà, in quel nome ci dev’essere l’impossibilità di essere normale.
Diego è sposo Juve, ma potrebbe esser sposo di tutta quell’Italia che insegue il calcio che ti appaga. Lo hanno capito i tifosi della Juve, fin dai giorni del ritiro estivo. Se lo sono coccolato, vezzeggiato, era il bon bon, ora è il bijoux. Parla il merchandising bianconero: con le magliette di Diego si è impennato del 40 per cento rispetto all’anno scorso. Perfino Del Piero è retrocesso in seconda linea. Che Ferrara si sia fidato del marketing, prima ancora che del proprio fiuto, per retrocederlo in panchina? Ieri, sulla panca dell’Olimpico, il capitano, guardava l’erede (erede nel cuor tifoso) con aria un po’ sconquassata, magari sconsolata, comunque sorpresa. Negli occhi di zio Alex pareva di veder frullare la figurina del brasileiro come i dollari negli occhi di zio Paperone. Un’ossessione.
Dici Diego, poi spifferi: Diego Ribas da Cunha. Sembra di ripescare la storia di quell’altro Cunha che faceva Sidney Cunha, detto Cinesinho. Un altro brasiliano-juventino di pelle chiara, un altro che partiva dal centrocampo per regalare palloni che saziavano. Vinse con la Juve lo scudetto 1967. Sembra una storia già scritta. Diego è partito con due gol, ed ha mostrato il meglio del repertorio: il primo gol con una delizia dell’esterno destro. Il secondo è un compendio del suo giocare moderno. Brasiliano d’accordo, ma senza pensieri fru-fru e nemmeno funambolici. Tanta essenzialità, una montagna di sostanza, gambe forti e baricentro basso, un metro e 73 per 73 kg: tutto qui il trucco. Poi ci sono dribbling, accelerazione, passaggio preciso e tiro potente. Prego, andate a ripassare il film della partita. Ci ritroverete tutto.
Oggi è ancora difficile catalogare l’appartenenza calcistica: campione o grande giocatore, asso o stella, fuoriclasse o fenomenino? Intanto nel sangue ha un rigagnolo d’Italia. Niente illusioni: è nato a Ribeirao Preto nello Stato di San Paolo, ma da qualche parte gli arrivano origini campane-ferraresi. Tanto che nel 2004 ha chiesto e ottenuto la cittadinanza italiana. L’Italia gli stava nel cuore. Diversi anni fa provò a presentarsi a Moratti: lui e il padre, introdotti da un amico italiano. Il presidente interista ha sempre avuto occhio per questo tipo di giocatori. Allora Diego giocava con Robinho. Gli venne richiesto un parere, ne uscì con una frase sprezzante. Non piacque a Moratti che non ha mai fatto distinguo di pelle per giudicare i calciatori.
Eppure il pallone segue traiettorie stravaganti. Ieri la Juve aveva in campo il trio do Brasil: Amauri-Felipe Melo-Diego. Bene, Amauri è richiesto da Lippi, benchè per segnare un gol gli serva calciare almeno 30 volte in porta. Melo è recente titolare della Seleçao, ma anche ieri si è agitato con qualche errore di troppo. Invece Diego non interessa Dunga. Dove l’errore? Cambiare i ct o cambiare scelte? Dei tre sarebbe l’unico Doc.
Ecco, Diego ha dimostrato che la società ha scelto bene, pur avendo speso tanto: 24,5 milioni di euro, non bazzecole. E se, per ora, qualcuno potrebbe ammiccare: il prezzo è giusto, i conti si faranno a fine stagione. Al Santos, al Porto e al Werder, la sua media gol non è stata altissima (nel biennio al Porto solo sei reti). Nessuno gli avrà spiegato le storie antiche di dispetti e disfide tra Roma e Juve, ma certo Diego ha provveduto da solo a rimettere la storia nel suo corso. Ha semplificato tutto in un campionato che ama complicare la vita a tanti. Non è facile presentarsi e dire: io sono questo. Senza nemmeno prendersi un attimo per studiare. Ci riuscì Zico: pareva giocar da sempre in Italia. Diego è uno di quella specie. Un numero dieci come lo erano Sivori e Platini, Maradona e Zidane. Naturalmente a modo suo.
Ma qui la maglia dice: numero 28, escamotage per comporre il dieci. Ovvero: 2 più 8 uguale 10. L’unica soluzione per sentir anche nella sua maglia il profumo di quel numero. Il dieci vero sta ancora sulle spalle pretenziose di Del Piero. Un dieci da panchina, ma quando mai il capitano accetterà di venir degradato sul campo? Il numero, più che la fascia, è il simbolo del potere. Diego se l’è conquistato sul campo. «Tecnicamente è fortissimo, ma nonostante queste doti riesce ad esser utile anche in difesa». Ciro se lo gode. Ciro è Ferrara, ma per Diego è solo Ciro. Lo dice alla brasiliana.

«Lui e gli altri mi hanno aiutato ad inserirmi. In questa squadra c’è qualità e con quella si può vincere. A Roma pensavo fosse dura e così è stato».
Certo non sarà Messi, ma per ora è un messia. E con quel calcio ci può dire ciò che vuole.

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