L’addio di Vianello: «Muoio col sorriso»

Chissà che risate lassù col suo grande amico Ugo Tognazzi, che se n’è andato vent’anni giusti prima di lui. Raimondo Vianello si sarà certo sbellicato ieri dando un’occhiata ai programmi che nel pomeriggio blablavano di lui, tra lacrime e standing ovation probabilmente sincere, prima di rituffarsi come ogni giorno a fianco degli sconosciutissimi naufraghi dell’Isola e dei loro penosi cantori. Oddio, forse è meglio così, troppe celebrazioni l’avrebbero infastidito. Un po’ di sano umorismo non guasta mai, e pazienza se è del tutto involontario.
Non per nulla Vianello era da una vita il re dell’ironia, trono per la verità insidiato da pochi, in un mondo come quello televisivo dove i tromboni e gli incapaci hanno una netta prevalenza. Avrebbe compiuto ottantotto anni tra meno di un mese, ma da tempo non appariva più in pubblico, né in una tv diventata sempre più becera e volgare. L’antitesi, insomma, della sua. Dal cattivo gusto si era sempre tenuto alla larga, un po’ per indole, un po’ per educazione, lui figlio di un ammiraglio e di una nobildonna che lo avrebbero voluto diplomatico e che ricevettero un contentino dalla laurea in legge, puntualmente rimasta nel cassetto. Già, perché il giovane Raimondo, dopo una breve permanenza nel campo di concentramento di Coltano, frutto della sua verdissima adesione alla Repubblica Sociale, dove si trovò con Walter Chiari, Enrico Maria Salerno, Luciano Salce, il futuro radiocronista Enrico Ameri, Mirko Tremaglia e il marciatore Pino Dordoni, aveva debuttato nello spettacolo.
Nella rivista Cantachiaro numero 2, per la precisione, che allora non aveva ancora assunto la più nobile denominazione di commedia musicale, pur avendo il marchio di qualità Giovannini e Garinei. La stoffa c’era, quasi inglese per eleganza e portamento, quindi non poteva sfuggire ai grandi della passerella dell’epoca, dalla Wandissima a Macario, da Dapporto a Bramieri. Quello spilungone dinoccolato dall’aria svagata e da prendingiro era perfetto anche per il cinema, e, manco a dirlo, per la nascente televisione, già affamatissima di volti nuovi. Con la differenza, rispetto a quella di mezzo secolo dopo, che per le nullità gli studi restavano chiusi.
Nacque così nel gennaio del ’54 il mitico Un, due, tre di Scarnicci e Tarabusi, che al duo Tognazzi-Vianello diede una popolarità sconfinata. E costò qualche tempo dopo un lunghissimo esilio dalla Rai. Colpa di uno sketch in cui i beffardi compagnoni osarono ironizzare con una battuta irriverente ma tutto sommato innocua («Chi ti credi di essere?») sul presidente della Repubblica Gronchi, che qualche giorno prima, non trovando più la sedia improvvisamente spostata da uno zelante politico italiano, era goffamente caduto in un palco della Scala davanti al generale de Gaulle.
Il cinema l’aveva scoperto presto, nel ’47, due film con un capocomico super, Totò, scomparso, quando si dice il destino, lo stesso giorno, 15 aprile, di quarantatré anni prima: nell’ordine I due orfanelli e Fifa e arena. Nel ’58, dopo aver girato altre commediole tutt’altro che memorabili, ritrovò sul set Ugo Tognazzi, con cui fece coppia per una serie impressionante di pellicole, anche se concentrate in tre anni, fino a Le Olimpiadi dei mariti e Tu che ne dici?. Poi nel ’61 Tognazzi cambiò improvvisamente strada, sposando con Il federale il Cinema con la C maiuscola, per trasformarsi in uno dei cinque moschettieri della commedia. Vianello, per classe e talento, avrebbe potuto essere il sesto, affiancando Sordi, Gassman, Mastroianni e Manfredi, ma preferì invece una navigazione più tranquilla tra i film disimpegnati, una carriera che si chiuse comunque presto, nel 1969, con il modesto 7 volte 7.
Poi fu solo televisione. Spesso, per non dire sempre, vicino a Sandra Mondaini, conosciuta nel ’59 sul set di Noi siamo due evasi e sposata tre anni più tardi. Un’unione lunga mezzo secolo, in cui la mancanza di figli fu surrogata dall’adozione di un’intera famiglia filippina, che viveva con loro a Milano 2. Studio Uno, Il tappabuchi, Su e giù, Sai che ti dico, Tante scuse, Io e la Befana, basta qualche titolo per ripercorrere il lunghissimo sodalizio artistico di Sandra e Raimondo. Dopo tanti anni in Rai, nell’82 Vianello, seguendo l’esempio di altri pezzi da novanta, passò a Mediaset, che si chiamava ancora Fininvest. Un trasferimento che più avanti indusse Vianello, a lungo senza dichiarate simpatie politiche, a giurare fedeltà a Berlusconi, schierandosi apertamente per il Cavaliere appena sceso in campo. Col Biscione la coppia raggiunse la consacrazione e una popolarità immensa: Casa Vianello fu una delle più fortunate e longeve sit-com, definizione tecnica che a Raimondo faceva venire l’orticaria. Le storie erano, per usare un eufemismo, quantomai esili, da una parte Raimondo che fa il cascamorto con una vicina giovane e di bell’aspetto, solo apparentemente disponibile, dall’altra Sandra che interviene fingendo un’inesistente gelosia. Oppure lui che si mette nei guai con un truffatore dalla parlantina sciolta e lei lo salva in extremis. E alla fine di ogni puntata eccoli fianco a fianco nel lettone matrimoniale, Vianello tutto assorto nella lettura della Gazzetta dello Sport, la Mondaini che si agita sotto le coperte intonando il suo refrain preferito «che barba, che noia, che noia, che barba».
Una finta guerra, che Raimondo alimentava con la sua inarrivabile, raffinata ironia, simulando un ostinato disinteresse per una moglie che invece nella vita vera amava perfino più del calcio. Ricambiatissimo.

Per retaggio familiare faceva un contenutissimo tifo per il Venezia e l’Ancona, Raimondo, anche se, ora che non c’è più, qualche grande club ha avuto l’impudenza di appropriarsi della sua passione. È scomparso a due mesi dai Mondiali di calcio, questa sì che è una disdetta. Infatti c’è da scommettere sulla prima domanda che avrà fatto arrivando a destinazione: avete Sky?

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