Troppo facile sparare sul pianista. Daccordo, stavolta gli ingredienti sono ideali per i killer dalla stroncatura pronta. Al Festival di Sanremo, poi, si scatenano. Scriveranno: «Italia amore mio», che titolo retorico. Pupo? Ma si accontenti della tv, non si agiti tanto e pensi a «Gelato al cioccolato». Il principe Emanuele Filiberto? Un bellimbusto, che cosa centra qui tra signori cantanti?
I paragoni, poi: gettonatissimi quelli con «Litaliano» di Cutugno e «Italia» di Reitano. E via dicendo, nel più prevedibile di quei «jaccuse» festivalieri che hanno stecchito canzoni poi diventate best seller. Lunico intoccabile del trio è Luca Canonici, che ha una voce impeccabile, stentorea e colorata, un curriculum che avercene di così belli e in «Italia amore mio» non si prende sul serio neanche un po. Daltronde il brano è una dichiarazione damore nella più pura tradizione del belcanto, senza orpelli ideologici, con qualche inevitabile retorica e con quellorgoglio lieve di chi celebra la propria terra.
E poi cè la struttura musicale.
Intanto non è per nulla banale, con un intreccio di voci e di partiture strumentali che sono più vicine alloperetta, o addirittura al melodramma, che alla tessitura tipicamente pop. Ciascuno dei tre interpreti fa il suo, senza sovrapporsi e, anzi, alternandosi con bel ritmo serrato. Il principe sussurra, niente più. Dice: «Io credo nella mia cultura, nella mia religione» senza lardire del canto e, tutto sommato, ha una parte pressoché recitata. Pupo (che lanno scorso aveva un brano decisamente inferiore) è molto più grintoso, si insinua nellalternanza con un piglio addirittura esagerato quasi volesse per forza staccarsi dal cliché in cui molti lo vogliono imprigionato.
PG
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