L’azzurro Pazzini primo eroe del nuovo Wembley

Nell’amichevole che ha inaugurato lo stadio londinese tripletta del giovane attaccante viola con standing ovation e consegna del pallone firmato dagli avversari

L’azzurro Pazzini primo eroe del nuovo Wembley

nostro inviato a Londra
Ventotto secondi, il battesimo più veloce della storia. Lassù, nella control room del quinto anello 20 persone davanti ad almeno altrettanti schermi cercavano di capire come il fortino di Wembley avrebbe retto al primo urto con la folla, 55mila persone, 55mila «io c’ero». Concentrati com’erano, gli uomini della security non si sono accorti che il vero colpo a sorpresa era avvenuto sul campo. 28 secondi e «la nuova casa del football inglese» aveva il suo primo inquilino. Giampaolo Pazzini.
Cerimonia breve all’ora di pranzo. La storia fa di questi scherzi, schiude le sue braccia a chi alla domenica a Firenze se ne sta accucciato in panchina a guardare Mutu e Toni con un po’ di mugugni. Tristezze da campionato italiano cui gli dei del calcio hanno voluto rimediare: tre gol a Wembley sarebbero già stati una favola, ma nel giorno della sua inaugurazione diventano fantascienza.
Tra le under 21 di Inghilterra e Italia finisce 3-3. Perfetto per un giorno di festa e se non fosse per le botte che sono volate in campo sembra un risultato da partita celebrativa. Lo è stata sicuramente per chi guardava. Per tutti, tranne quei tremila steward che come gli azzurrini di Casiraghi si preparavano a match più importanti: all’Europeo di giugno in Olanda l’Under (e gli inglesi, con Repubblica Ceca e Serbia saranno nel nostro girone); ad accogliere, e nel caso anche fronteggiare, novantamila persone, gli uomini e le donne dalla casacca gialla guidati da uomini e donne dalla casacca bianca. I supervisor. Le facce sono sorridenti, ma se appena provi a fare una domanda in più, steward e agenti di polizia alzano la guardia. Si capisce che non se la stanno godendo, della nuova casa del football inglese loro sono i cani da guardia.
Ma è dentro, nella pancia del nuovo impianto, che si accende un cero alla memoria di quello vecchio: proprio mentre Chiellini ciccava un rinvio regalando palla e gol del 2-1 agli inglesi, al secondo anello, nel ristorante specializzato in pesce, una coppia aveva appena spazzolato un plateu fruits de mer da 39 sterline. Colori soffusi, zero effetti sonori, moquette già un po’ fané, schermi a cristalli liquidi sulle pareti e nei corridoi larghi come tangenziali e lunghi un chilometro che ti permettono di circumnavigare l’intero impianto. «Signori e signore, la partita ricomincia tra cinque minuti. Siete pregati di tornare al vostro posto dove è permesso portare cibo e bevande, ma non alcolici»: lo speaker scandisce i tempi dell’intervallo come nel foyer di un teatro. Oddio, non che la gente ci faccia molto caso, al fast food del blocco 246 la fila dei tifosi è inferiore soltanto a quella dei wurstel che sfrigolano in attesa di morire definitivamente soffocati dalla senape. Lì intorno si aggirano procuratori italiani, c’è pure Vincenzo Montella, emigrato al Fulham in uno stadio, il Craven Cottage, che al confronto il vecchio Wembley era un inno alla modernità, «ci vorranno un po’ di anni, ma anche questo stadio diventerà affascinante» dice.
I tifosi inglesi ne sono certi. Quando la metropolitana, che arriva a trecento metri da Wembley, sbuca da sottoterra parte come una gara a chi vede per primo l’arco destinato a diventare il brand del nuovo stadio. Illuminato per metà, da lontano sembra una corona. E lascia tutti a bocca aperta. Dentro, uno come Roy ci impiega un po’ a prendere le misure. Ma se Zola stentava a riconoscere la porta in cui segnò il gol della vittoria azzurra del ’97, figuriamoci lui che nel ’66 entrò per la prima volta a Wembley. Coppa del mondo, Inghilterra-Uruguay. Ora di anni Roy ne ha 56, ma questo stadio gli piace: «Sono un tradizionalista, ma è tutto fantastico. E poi non ci sono più quei maledetti piloni tra il pubblico e il campo».
I pali di legno. Quelli rimpianti alla vigilia da Gigi Riva. Lui che per un giorno, insieme con il collega della federazione inglese Geoff Thompson, ha fatto le veci della famiglia reale. Loro due hanno stretto la mano alle squadre sul campo; loro due le hanno premiate al termine dei 107 gradini saliti dai giocatori come capita nelle finali che contano. Usanze inglesi. Come quella di regalare il pallone del match, firmato dagli avversari, a chi fa una tripletta. Hat trick, la chiamano. Pazzini l’ha scoperto alla fine. Sognava un gol come Batistuta all’Arsenal, si giocò quell’anno a Wembley, ieri l’ha strasuperato. «Giorno strepitoso. L’applauso finale degli inglesi mi ha messo i brividi, la loro è una questione di cultura. Ero quasi in stato confusionale».

A due metri Zola, vice di Casiraghi (il programma ufficiale li chiama i Blues Brothers, per il comune passato nel Chelsea), raccontava ai cronisti inglesi: «All’inizio forse ero più teso di loro». Poi si è seduto in panchina e ha visto cominciare un’altra storia.

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