L’erede di Carlo Magno che distilla in Russia la vodka per i compagni

Eugenio Litta Modignani: "Da manager stavo 250 giorni l’anno in aereo, persi conoscenza per 48 ore". Per fermarsi ha creato vicino a San Pietroburgo la Tovaritch: un successone. Un suo avo fu diplomatico alla corte di quattro zar, un altro cedette a Caterina la Grande la Madonna Litta attribuita a Leonardo da Vinci

L’erede di Carlo Magno 
che distilla in Russia 
la vodka per i compagni

Che un Grande di Spagna e Magnate d’Ungheria, discendente di Pipino il Breve, di Carlo Magno e di Ugo Capeto, appartenente a un casato che annovera nell’albero genealogico i marchesi di Gambolò, i conti di Valle e Darghignano, i signori di Castelnuovo Belbo, Trenzanesio, Valcuvia, Arcisate e Bissone, della Pieve di Brebbia e della Freccia Superiore di Varese, si guadagni da vivere vendendo superalcolici, già sarebbe una notizia. Ma l’italiano Eugenio Litta Modignani, decimo marchese di Menzago e Vinago, s’è messo a produrre vodka per i russi in Russia e quindi siamo alla più classica delle antinomie, quella del piazzista che riesce a vendere frigoriferi agli eschimesi.
L’ultimo erede del re dei Franchi e dei Longobardi nonché imperatore del Sacro romano impero ha preso da Jules René Litta, un antenato che a partire dal 1789, e per mezzo secolo, fu ministro plenipotenziario del Sovrano Ordine di Malta a San Pietroburgo, alla corte dell’imperatore di tutte le Russie. E se quell’avo diplomatico riuscì a seppellire ben quattro zar - nell’ordine Caterina la Grande, Paolo I, Alessandro I e Nicola I - ci sono buone probabilità che Eugenio Litta Modignani sopravviva al tandem Vladimir Putin-Dmitrij Medvedev e a quelli che verranno dopo. Vendere vodka ai russi, infatti, dal punto di vista commerciale equivale a un’assicurazione sulla vita: il consumo ha toccato lo stratosferico record di 2 miliardi di litri (3 miliardi con la distillazione clandestina) ed entro il 2012 aumenterà di un altro 5,3%. La vodka ha strappato al whisky il primato di distillato più venduto al mondo, sia perché si usa come base per molti cocktail sia perché fra i giovani va di moda bere spiriti bianchi, neutri, inodori, non invecchiati.
Ma il vero colpo di genio di Litta Modignani è stato quello di chiamarla Tovaritch (compagno, in russo), di inventarle una bottiglia serigrafata nella quale predomina il colore rosso e di utilizzare nella pubblicità i dagherrotipi virati in seppia di Lenin ma anche i cinegiornali con Boris Eltsin già ciucco che ingolla il bicchierino della staffa. Sarà la nostalgia canaglia, sarà l’etilismo acuto, il successo è da togliere il fiato: 1.000 casse il primo anno, 2.200 il secondo, 4.400 il terzo, su, su, raddoppiando di anno in anno, fino alle 30.000 casse del 2008 e alle 65.000 previste per il 2009, dove per cassa s’intendono 12 bottiglie per un totale di 9 litri, con vendite che hanno fruttato 18 milioni di euro.
Un bilancio ragguardevole se si considera che in questa avventura Litta Modignani aveva investito nel 2001 solo la liquidazione, 600.000 euro, del precedente impiego come manager. Ora deve spendere molto di più in avvocati per difendere il marchio dalle imitazioni: «Ho fatto causa sia a Londra che a Düsseldorf contro la Dobre Tovaritch, dobre significa buongiorno, prodotta in Germania su licenza inglese. In Russia la piaga delle contraffazioni non esiste. I marchi registrati sono molto tutelati, se non altro perché il 22% delle entrate statali è rappresentato dalle accise sull’alcol».
L’etichetta della Tovaritch s’ispira al futurismo comunista degli anni di Vladimir Majakovskij e della Rivoluzione d’Ottobre. Il marchese bandì nel 1999 un concorso d’idee, vinto dal pittore Mark Jakovlev, che nel frattempo è passato a miglior vita. Vi si vede quello che poteva essere un attivista dell’Unione della gioventù leninista, lettore della Komsomolskaya Pravda, proteso in un gesto eroico, quasi a indicare il futuro, «ma avrà notato che l’ho voluto con la mano aperta, non col pugno chiuso», strizza l’occhio Litta Modignani.
Ci mancherebbe altro che l’ultimo difensore del Sacro romano impero se la intendesse con i bolscevichi. Sarebbe già stato messo alla porta da mezzo parentado, a cominciare da Paola di Liegi, regina del Belgio, che fu sua madrina di battesimo a Uccle, dov’è nato il 22 febbraio 1967, per finire con la graziosa consorte, la principessa Natascha von Sayn Wittgenstein Berleburg, sposata due anni fa, che nel medesimo giorno, il 22 febbraio 2008, complici il caso e un parto cesareo, lo ha reso padre di Tatiana. E forse avrebbe trovato qualcosa da ridire anche Maria Gabriella di Savoia, terzogenita dell’ultimo re d’Italia, e la figlia Elisabeth de Balkany: fu al ballo per il debutto in società della nipote diciottenne di Umberto II, in casa Volpi sul Canal Grande a Venezia, che il giovane patrizio conobbe la futura moglie. Correva il 1991. Lui aveva 24 anni, lei appena 19.
Sedici anni di fidanzamento. Ha avuto costanza.
«Per lungo tempo Natascha e io siamo stati soltanto buoni amici. Ci vedevamo a Parigi, negli Stati Uniti, in Spagna e all’Argentario».
Poi che è successo?
«Due anni fa sono maturato. Prima pensavo solo al lavoro».
Credevo che i nobili non lavorassero.
«La nobiltà è cambiata. Bisogna lavorare. Guardi Aimone di Savoia, figlio di Amedeo di Savoia, duca d’Aosta».
Quello che è stato battezzato con l’acqua del Giordano e del Piave e che secondo una profezia di padre Pio diventerà re d’Italia?
«Rappresenta la Pirelli a Mosca e lavora tantissimo. Una persona seria».
Lei come ha cominciato?
«A 19 anni, appena uscito dal liceo Parini di Milano, dov’ero in classe col figlio di Callisto Tanzi. Ho la concretezza del ragioniere, preferisco la pratica alla teoria. Primo impiego alla Mmm belga, trading di alcol. Ma il mio vero professore è stato Philippe Meeus, proprietario della Alcotra svizzera, leader mondiale nel commercio di bioetanolo. A 20 anni mi ha spedito in Corea a svolgere ricerche di mercato. Poi mi sono fatto Giappone, Cina, Pakistan, Indonesia, Australia, Filippine, Nuova Zelanda e l’intero Medio Oriente. Mi mancano solo Iran e Irak, lì ci sono stato in vacanza. Subito dopo Meeus mi ha aggiunto Usa, Messico e Cuba. Passavo 250 giorni l’anno in aereo. A 26 anni la Russia, a 28 l’India. Finché non ho avuto la migraine primaire».
Mal di testa acuto?
«Ho perso conoscenza per due giorni. Alle 8 di mattina ero in riunione, stavo prendendo appunti. Sul foglio le parole si sono trasformate in una linea. Patapum, testa sulla scrivania. All’uscita dall’ospedale ho deciso di rivedere i miei fusi orari. E quando l’Alcotra ha chiuso la sede di Mosca, ho rifiutato il trasferimento a Dallas, in Texas, e mi sono licenziato per restare nella capitale russa».
Senza un lavoro.
«Ma con un progetto: la Tovaritch. In Russia esistono 250 produttori e 4.000 marche di vodka. Le più famose sono Putinka, Stolychnaya e Moskovskaya. All’inizio pensavo di produrre solo per l’esportazione, non volevo inimicarmi le industrie locali. Ma due anni fa ho lanciato la Tovaritch anche in Russia e il successo è stato travolgente. Ora voglio attaccare il primato della numero uno nel mondo, la Smirnoff, che però non è esclusivamente russa: viene prodotta in vari Paesi dal gruppo dello champagne Dom Pérignon e della birra Guinness».
Mentre la sua?
«La Tovaritch nasce solo a Kirishi, 160 chilometri da San Pietroburgo. La distilleria è lontana dal centro abitato, piantata su un pozzo artesiano profondo 75 metri. La purezza dell’acqua è tutto, per una vodka».
Perché?
«Perché dalla distillazione dei cereali si ottiene alcol a 96,7 gradi. Dopo 72 ore di lavorazione e cinque diversi passaggi per togliere aldeidi, alcoli superiori, metanolo, insomma tutte quelle impurità che danno il mal di testa nelle vodke scadenti, si aggiunge all’alcol il 56% di acqua».
Resta il mistero del perché i russi comprino la vodka da un italiano.
«Non sanno che la fa un italiano. È un prodotto russo a tutti gli effetti».
Però la sua società ha sede in Svizzera.
«Per una questione di sicurezza la proprietà intellettuale del marchio l’ho depositata a Ginevra. Mi sento più protetto. Non vorrei che, sull’onda del successo, i russi mi fregassero il brand, che rappresenta il vero valore dell’azienda. Comunque io lavoro a Mosca, come la gran parte dei dipendenti, 166. Solo due stanno a Ginevra».
A Mosca dove vive?
«In una casa a 300 metri dal Cremlino, dietro il conservatorio dove insegnava Pyotr Ciajkovskij. Prima che nascesse nostra figlia vedevo mia moglie solo nei fine settimana a Parigi».
Alla signora non piace il clima russo?
«Non è questo. Anzi, abbiamo passato dei bellissimi week-end in una dacia di Sergejev Posad, l’ex Zagorsk, il Vaticano degli ortodossi. Ma Natascha è un architetto che si occupa di moda e Parigi è la capitale degli stilisti. Segue una linea di costumi da bagno, Tooshie bikini, disegnata da lei».
Niente vita di società insieme.
«Qualche volta. Eravamo al matrimonio di Aimone di Savoia con Olga di Grecia, secondogenita di Michele di Grecia, lo scorso ottobre. Una cerimonia molto intima, col rito ortodosso, sull’isola di Patmos. Sessanta persone in tutto. C’erano Sofia, la regina di Spagna, e Maria Gabriella di Savoia».
Ho letto che lei è anche discendente di Ferdinando I, re di León e Castiglia; di Guglielmo I d’Inghilterra; di Alfonso Henriques del Portogallo.
«Lo apprendo da lei. Magari s’aspettava che le dicessi sì, sì, certo. Di solito i nobili fanno così. Ma siccome ignoro questi nomi...».
Infatti è un’informazione immaginaria. Complimenti, ha superato il test della modestia.
«Sono figlio di un marchese di Menzago e Vinago che si guadagnava da vivere facendo il capo di gabinetto alla Commissione europea».
Un suo antenato, ufficiale al servizio della corte russa, fece dono allo zar della Madonna Litta attribuita a Leonardo da Vinci, oggi conservata all’Ermitage di San Pietroburgo.
«Anche questa informazione è imprecisa. Il dipinto fu venduto da un figlio di Jules René Litta all’imperatrice Caterina II, insieme con molti altri quadri, per ripianare i debiti accumulati dalla città di Milano nella guerra contro gli Austriaci».
L’alcolismo fa 700.000 morti l’anno in Russia. Praticamente un decesso su tre. «Lancet» ha scritto che circa il 43% della popolazione muore per cause legate all’alcol: cirrosi, malattie epatiche, incidenti, crimini. Non si sente in qualche modo responsabile?
«A me risulta che i decessi siano 30.000 e tutti per l’assunzione di alcol alterati. Quindi no, non mi sento responsabile».
Le statistiche dicono che i cittadini russi oltre i 15 anni in media bevono 15,2 litri di alcol l’anno. Purtroppo spesso è contenuto in profumi, dopobarba e antisettici orali...
«Ammetto d’aver visto operai bersi l’alcol di sintesi ottenuto dagli idrocarburi, quando lavoravo nel ramo petrolifero. Lo rubavano dagli impianti di raffinazione. Appena salito al potere, Michail Gorbaciov aveva fatto cementare le colonne di distillazione. Tutto inutile».
Ma i russi bevono per il gelo o per dimenticare?
«Per cultura, per convivialità. Il primo bevitore forte di vodka fu Pietro il Grande».
Bevono molto anche le russe?
«Sì, ma in modo diverso: champagne di produzione locale e vino».
Sua moglie non è gelosa delle russe, magari un po’ alticce?
«Non c’è motivo perché lo sia».
Alfredo Villa, agente di Borsa italo-svizzero, mi ha detto: «Non conosco uomo, fra quelli che guadagnano tanto, che non mantenga almeno due russe».
«Non potrei mai andar d’accordo con una russa. Mentalità troppo diverse. Sull’educazione dei figli, sul concetto di libertà, sul modo di rapportarsi agli altri siamo proprio due mondi opposti».
Come si vive a Mosca?
«Bene. È una città modernissima, nient’affatto pericolosa: la polizia è ovunque. La gente vive per l’arte e la cultura. Ai concerti e a teatro trovi moltissimi bambini».
Da che cosa nasce la straordinaria concentrazione di ricchezza che c’è oggi in Russia?
«Dal commercio delle risorse energetiche».
La mafia russa su che cosa lucra?
«Le posso fare io una domanda? E quella italiana? Ecco».
È suo parente l’Alessandro Litta Modignani che siede nella direzione dei Radicali italiani e che ce l’ha a morte col Papa per aborto, bioetica e gay?
«Alla lontana. L’avrò visto in tutto due volte. L’ultima sabato scorso, al matrimonio della nipote, dove ho scoperto che fa politica».
E l’Alberto Litta Modignani, presidente degli Amici della lirica di Milano, che voleva adottare il sindaco Gabriele Albertini e dargli il suo cognome?
«Non lo vedo e non lo sento da quando se ne uscì con quella bizzarra trovata, che ci costrinse a scrivere una lettera ad Albertini per dissuaderlo dall’accettare. Per la nostra famiglia l’equidistanza dalla politica è tutto».
Per questo avete impedito a Silvio Berlusconi di visitare Villa Allamel, la vostra residenza ottocentesca di Cernobbio, nonostante fosse interessato all’acquisto?
«Non mi faccia parlare di quello spiacevole incidente. In realtà Berlusconi fu lasciato al cancello dal portinaio perché la sua visita non era annunciata».
Che responsabilità comporta essere nobili?
«Si porta un nome. Bisogna dare l’esempio».
Ma quanto conta oggi avere un titolo?
«Niente. Conta la reputazione. L’unica cosa bella della nobiltà è che puoi risalire alle tue origini. Ieri sono andato a pregare sulla nostra tomba di famiglia a Ossona. Vi sono stati tumulati, a partire dal 1600, una trentina di Litta Modignani. Per me è stato come reincontrarli tutti».
Avrei dovuto chiamarla «don» o sbaglio?
«Lo scrivono solo sugli inviti».
Allora «marchese».
«Preferisco zar della vodka».
Con l’avanzata musulmana è spacciato.


«In Russia l’Islam non attaccherà mai. La Chiesa ortodossa è troppo radicata».
E se tornano i comunisti e le nazionalizzano la distilleria?
«Non tornano, tranquillo».
(453. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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