L’«INVASION» DI ALIENI SENZA PATHOS

La prima notizia è che è partita una nuova serie americana di successo in piena estate su Canale 5 (Invasion, martedì e giovedì, ore 21, dalla prossima settimana il mercoledì). La seconda è che si è deciso di metterla in onda in prima serata, avvenimento che sulla rete ammiraglia del biscione non accadeva dai tempi benemeriti di Twin Peaks. È proprio l'anno delle serie tv, e in particolare di quelle d'oltre oceano, se può accadere questa doppia concomitanza di novità in un periodo considerato morto per la programmazione e sconsigliato per i debutti di un certo calibro. Scelta felice, in ogni caso, almeno sotto il profilo degli ascolti che hanno fin qui premiato l'intraprendenza di Canale 5 ben oltre i meriti specifici di una serie che, programmata in un periodo di maggiore concorrenza, non avrebbe probabilmente sbaragliato l'Auditel come invece è accaduto in questa prima settimana. Invasion racconta di un uragano che si abbatte sulla tranquilla cittadina di Homestead, in Florida, sconvolgendone la vita ben al di là del semplice avvenimento meteorologico. Appena gli abitanti cominciano l’opera di ricostruzione, infatti, scoprono che molte cose sono cambiate. Ad esempio, l’ex moglie del ranger Russell Varon (interpretato da Eddie Cibrian) viene trovata nuda e senza memoria al largo della spiaggia, mentre la figlia Rose (Ariel Gade) racconta di aver visto delle strane luci nell’acqua durante l’uragano e da lì in avanti è tutto un susseguirsi di fenomeni stravaganti, presenze extrasensoriali, manifestazioni aliene e situazioni di forte timbro inquietante. Siamo insomma nel solco di una tradizione seriale all’insegna del connubio avventura-fantascienza che ha preso ulteriore impulso dopo Lost, dando vita a un filone non sempre fortunato e quasi mai all’altezza delle aspettative. In particolare, Invasion soffre della brutta abitudine che sembra essersi impossessata con preoccupante frequenza nelle menti e quindi nella penna degli sceneggiatori americani, che si trastullano in una lentezza spesso esasperante, indugiano in una sorta di insistito surplace narrativo fatto di stucchevoli attese di qualcosa che deve arrivare ma solo di rado, a conti fatti, giunge a vitalizzare ed emozionare per davvero lo spettatore.

È un pathos che si nutre di troppi preliminari, è una promessa di «azione» che troppo a lungo ristagna e, quando finalmente si appalesa, non di rado lo fa con effetti che nel frattempo hanno perso di incisività e credibilità (di cui anche la fantascienza ha bisogno, più di quanto si creda). Alla sostanziale stagnazione narrativa si aggiungono, come ulteriore aggravante, dialoghi piuttosto piatti in deludente controtendenza rispetto all’accertato talento degli sceneggiatori yankee.

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