L’irresistibile fascino dell’intollerabile

Da giovedì al Padiglione d’Arte Contemporanea aprono due mostre che avevano generato parecchie polemiche. Dovevano essere ospitate a Palazzo Reale. Dovevano essere inaugurate a fine gennaio. Ma le perplessità del sindaco Letizia Moratti hanno fatto slittare data e cambiare sede all’evento e indignato l’assessore alla Cultura Vittorio Sgarbi che le aveva inserite in una più ampia programmazione annuale dedicata alla fotografia d’autore. Ora ogni cosa è al suo posto, ogni opera pronta ad essere giudicata anche dal pubblico. Si tratta delle personali di due artisti border line: Jan Saudek e Joel Peter Witkin, fotografi che hanno compiuto percorsi molto differenti, ma che sono accomunati da uno strano modo di osservare il genere umano. Eppure andare a vedere queste due antologie sarà un po’ come essere a teatro, o al circo: simbolicamente accoccolati in poltrona, in bilico tra voyeurismo e pena, assisteremo a uno spettacolo insolito, a volte scioccante, in certi casi perfino ripugnante, ma mai gratuitamente osceno. Sarà come vedere una rappresentazione arzigogolata e composita del mondo reale e di quello soprannaturale.
I due autori hanno posizioni opposte. Mentre Saudek sembra terrorizzato dal tempo che passa, dal decadimento fisico, dall’invecchiamento e dalla perdita della bellezza, Witkin pare attratto da tutto ciò che è ripugnante, grottesco, deforme o intollerabile. Ma, come è noto, la creatività e il carattere di ogni individuo sono frutto delle sue più intime esperienze di vita. Di Saudek, nato a Praga nel 1935, saranno esposte oltre ottanta opere in bianco e nero ritoccate e colorate a mano. Sono per lo più nudi in posa, che emanano un erotismo intrigante e decadente. Sono le sue stesse insicurezze, le fantasie inquadrate e fermate per sempre con la consapevolezza che una fotocamera potesse scavare nella commedia umana per meglio comprenderla. Jan Saudek, oggi considerato il massimo fotografo ceco, è un autodidatta. Iniziò la professione nella cantina di casa, osteggiato dal regime comunista. Un muro umido e incrostato fece da sfondo a molti suoi ritratti, diventando il suo marchio distintivo. Un modo di riprendere, il suo, che è denuncia e umanità, è erotismo e genio, è soprattutto espressione dell’impossibilità di essere felici.
Altra faccenda per Joel Peter Witkin. Per lui niente era semplice né ordinato. A soli sei anni vide rotolare ai suoi piedi la testa di una bimba che morì per cause violente. Questo evento lo segnò per sempre. Allestisce collage di molti elementi dove protagonista indiscussa è la morte, regalandoci scene che sembrano aver appena ospitato un delitto. Come Diane Arbus, questo autore americano sceglie gli emarginati generati da una società malata, restituendoceli come pugni nello stomaco. Tra teste mozzate e scheletri bisessuati, si anima una fiera del mostruoso surreale e visionaria dove l’unica regola è il caos, perché, come lui stesso afferma «tutto ciò che il mondo considera bello è solo una parte della realtà, fatta di contraddizioni, di lotte interiori, nel continuo rincorrersi di sentimenti di vita e di morte».

Solo che i suoi inquietanti personaggi, testimoni della caducità dell’uomo, possiedono un’identità che le persone normali hanno perduto per sempre. Nell’imperfezione fisica si cela dunque un valore e si è quasi costretti a credere che nessuno di noi sia immune da una mutazione.

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