L’unico record di Prodi: due governi ko su due

Le analogie: Pallaro è rimasto in Argentina, nel ’98 la Pivetti a casa per allattare la figlia neonata E l’esecutivo finì sotto per un voto

da Milano

La coerenza innanzitutto. E infatti almeno un record va riconosciuto a Romano Prodi: nella cagionevole salute dei governi italiani i due presieduti dal Professore sono gli unici, tra 65, ad essere caduti in Aula, battuti da una mozione di sfiducia (altri finirono prima ancora di nascere, durante il battesimo parlamentare). La prima volta Prodi andò a casa il 9 ottobre del 1998, affondato per un solo voto, 313 no contro 312 sì. Svenimenti e sputi non ci furono, ma parolacce sì, e anche quella volta volarono dentro uno stesso partito della maggioranza. Non l’Udeur ma Rifondazione comunista, spaccata tra cossuttiani favorevoli alla fiducia e bertinottiani decisi al no: «venduti!», si beccarono i primi, «disgraziati, adesso andate a lavorare se sapete cosa significa!» i fedeli di Fausto.
Ma i nervi quella volta saltarono anche a uno solitamente compìto come Massimo D’Alema, che dopo la beffa scoppiò: «Basta con questi dilettanti, non si può venire in Parlamento quando si sa di non avere i numeri, mi sono rotto i c...». I «dilettanti» incaricati di recuperare gli onorevoli in bilico erano i membri di una speciale «task force acchiappavoti», dentro cui si ritrovano nomi che hanno fatto il bis con Prodi condividendone vittorie e tracolli: Arturo Parisi e Enrico Micheli, nel ’98 sottosegretari del premier, nel 2008 rispettivamente ministro della Difesa e ancora sottosegretario a Palazzo Chigi. Lo stesso Parisi che l’altro giorno consigliava a Prodi di «affrontare la cosa in pubblico», e cioè andare al Senato, nel ’98 era il fiduciario delegato a tenere la conta degli onorevoli pronti a dare la fiducia, per poi istruire il premier se affrontare l’Aula o no. Ma qualcosa, anche nel ’98, andò storto: «Mi ha tradito il pallottoliere, pensavo di avere 315 voti, invece...» ammise il taciturno Parisi (soprannominato «sottosegretario con delega al silenzio»).
Anche allora, come giovedì scorso, Livia Turco era ministro, e anche quella volta finì il suo mandato tra le lacrime, «è la fine di un sogno» disse prima di fuggire da Montecitorio per non piangere lì davanti a tutti. Ma se la storia si ripete per Prodi non è per mano di Mastella, anche se poco ci manca. L’ex ministro di Ceppaloni in quell’anno era segretario dell’Udr, creatura politica nata dalla mente di Francesco Cossiga, presidente onorario di quel partito centrista nell’orbita ulivista. Ma nell’ottobre ’98 il voto dell’Udr è molto incerto, ci sono colloqui, offerte e controfferte per garantire i voti che Rifondazione avrebbe fatto mancare. Ma i cossuttiani mai avrebbero votato con «Kossiga», dunque la cosa sfuma. Così l’Udr - come oggi l’Udeur - vota contro la fiducia, e finisce ad appoggiare il successivo governo.
E i diniani che giovedì hanno fatto mancare due voti alla loro ex coalizione? Anche quella volta ci misero lo zampino, nella figura di una deputata ex leghista da pochi giorni incinta. Irene Pivetti, eletta alla Camera con Rinnovamento italiano di Lamberto Dini, vide la fine di Prodi come un italiano qualsiasi, davanti alla tv. Un po’ come il senatore Luigi Pallaro, rimasto in Argentina nonostante le telefonate insistenti dei colleghi dell’Unione («preferisco non votare per lasciare spazio alle decisioni del Capo dello Stato»), anche la Pivetti aveva un buon motivo per non essere a Roma: allattare la neonata Ludovica Maria. «Avrei votato sì, ma nessuno mi aveva detto che il mio voto sarebbe stato determinante», si giustificò lei.

Quando in Transatlantico cominciò a girare la voce che la sopravvivenza si giocava sul filo di uno o due voti qualcuno provò anche a farla salire su un aereo. Ma non funzionò: «Ci vorrebbe il teletrasporto del dottor Spock», rispose il marito della onorevole. Anche a Pallaro, da Buenos Aires, avrebbe fatto comodo, ma stavolta non sarebbe bastato neanche quello.

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