Lasciate in pace le ceneri di Pasolini

Veltroni, intellettuali di sinistra e il partito di Repubblica chiedono nuove indagini sulla morte del poeta. Compito della magistratura però è fare chiarezza sul piano giudiziario, non storico. E dopo 35 anni è impossibile

Lasciate in pace le ceneri di Pasolini

Il ministro della Giustizia Angelino Alfano, sollecitato da Walter Veltroni ad adoperarsi perché siano fatte nuove indagini sull’assassinio di Pier Paolo Pasolini, ha scritto che «accertare la verità è non soltanto utile ma necessario». Ed ha aggiunto che questo non deve mirare soltanto a stabilire se vi siano state responsabilità penali, ma «a far chiarezza sul piano storico-politico, oltre che su quello giudiziario». Nella circostanza la legge dovrebbe dunque attivarsi con uno scopo diverso - e, par di capire, più alto - di quello che le è normalmente assegnato. Con lo scopo cioè di dare risposte sicure agli interrogativi - numerosi e spesso angosciosi - che derivano dalle vicende nazionali. Con queste affermazioni il Guardasigilli sembra associarsi a una concezione che in altri momenti e per altri casi è stata rimproverata alla magistratura politicizzata: convinta di assolvere un supremo compito civico, anziché limitarsi a stabilire, in rapporto a ben individuate persone e per fatti concreti, se vi sia stato reato (e qualora vi sia stato come debba essere punito). Troppo banale l’attenersi al normale corso dei processi, e poco importa che, cammin facendo, i processi siano approdati a sentenze definitive con il suggello della Cassazione. Tutto viene rimesso in discussione se non appaga determinate istanze ideologiche, carte che hanno il timbro delle definitività sono invece soggette a riesami continui.

Il «caso» Pasolini è, in proposito, esemplare. La sparizione d’un capitolo finale del suo libro postumo, Petrolio, è stata vista come un ennesimo mistero minore nel mistero maggiore della morte tragica e violenta, il 2 novembre 1975. Pino Pelosi, torvo ragazzo di vita, confessò a suo tempo d’avere senza complici ammazzato Pasolini. Fu condannato a nove anni e sette mesi di reclusione, espiò la pena. Dopodiché riprese la sua esistenza di piccolo criminale, altre denunce, altre condanne, altra prigione. Nel 2005 ritrattò le precedenti confessioni e raccontò - essendo nel frattempo passati a miglior vita tutti coloro che avrebbero potuto confermare la sua nuova versione - che Pasolini era stato vittima d’un agguato fascistoide, i veri autori del massacro gli gridavano «porco comunista, frocio, carogna». Tutto questo si avvicinava a un reportage di Oriana Fallaci, a suo tempo ritenuto senza fondamento.
Non basta. Nel perduto capitolo di Petrolio sarebbero contenute accuse gravi alla dirigenza dell’Eni e in particolare a chi ne fu presidente dopo Enrico Mattei, Eugenio Cefis. Con il che la fine di Pasolini diventa una sorta di seguito della fine di Enrico Mattei, il 27 ottobre 1962, nello schianto a Bascapè presso Milano, del bireattore sul quale viaggiava. Aggiungete a questo intreccio già sensazionale l’omicidio del giornalista Mauro De Mauro, e avrete un perfetto thriller intriso di affarismo feroce, di sesso torbido, di complicità altolocate. La chiarezza che sia Alfano sia Veltroni invocano dovrebbe venire da nuove perizie - qualificate infallibilmente come superperizie -, da nuovi testimoni - qualificati infallibilmente come supertestimoni - e da nuove sentenze, da qualificare come supersentenze. Il supertestimone numero uno - sulla cui attendibilità, nonostante i precedenti, qualcuno è disposto a giurare - sarebbe «Pino la rana».
Mi rendo conto di quanto sia grande il fascino d’un viluppo romanzesco di questo calibro. Né voglio insistere su un’obiezione pratica che di sicuro non turba i «revisionisti»: ossia che la faccenda finirà in niente, molti quattrini del contribuente saranno dilapidati, molte ore di lavoro di Pm e giudici saranno impegnate dall’inchiesta sul passato remoto mentre tanti fascicoli attuali con vicende urgenti e importanti della gente comune giacciono nei faldoni. Mi limito a qualche osservazione.

La prima è che l’episodio nel quale perse la vita Pasolini somiglia, come una goccia d’acqua somiglia a un’altra, a tantissimi episodi dei quali sono stati protagonisti e vittime omosessuali spericolati e amanti del brivido: categoria alla quale Pasolini - e non si vuole mettere in dubbio con questo la sua statura intellettuale - senza dubbio apparteneva. L’aver rimorchiato un torbido ragazzotto girovagante alla stazione Termini si addiceva a una certa routine pasoliniana di incontri.

La seconda è che l’idea secondo cui le perizie fanno luce appartiene alla favolistica di chi non conosce l’universo giudiziario. Le perizie - plastici inclusi - servono di solito per creare un’enorme confusione, al perito d’ufficio vengono opposti periti di parte e stranamente la scienza risulta incline a compiacere la parte che l’ha arruolata.
La terza è che per la morte di Mattei ha funzionato il meccanismo che si vuole attivare adesso per la morte di Pasolini. Sono stati riesumati e analizzati i resti del bireattore e di chi era a bordo. Tutto questo è costato miliardi di lire. Carlo Lucarelli ieri su Repubblica ha scritto che Enrico Mattei «fu ucciso, come è stato in seguito provato, da una bomba sul suo aereo». Questa asserzione esige qualche aggiunta. Il pm di Pavia Vincenzo Calia dispose una perizia la quale, tra molti «è possibile, è compatibile» dichiarava che sul Morane-Saulnier c’era stata un’esplosione. Ma l’unico incriminato fu il contadino sul cui terreno s’era infranto l’aereo, accusato d’avere in un primo tempo parlato d’un bagliore in volo e d’avere rettificato la sua testimonianza dopo un incontro con dirigenti dell’Eni. Il poveraccio, Mario Ronchi, non aveva i mezzi per fare eseguire una controperizia che, siatene certi, avrebbe fatto a pezzi quella d’ufficio. Gli si imputava di aver rinnegato l’esplosione dell’aereo, ma il fatto è che non ci fu nessuna esplosione. L’aereo si conficcò nel suolo praticamente intatto. Per risolvere l’enigma l’accusa ha ipotizzato che la carica fosse «limitata, non distruttiva», un pizzico d’esplosivo, quanto bastava per stordire il pilota. Ma non ci furono altri indagati, nell’Eni o fuori dall’Eni. Mario Ronchi è deceduto dopo che l’accusa a suo carico era stata lasciata perdere per un residuo senso del ridicolo, tutto è finito in niente.

Questo il risultato del tanto atteso accertamento della verità.
Si vuole ripercorrere lo stesso cammino per arrivare allo stesso traguardo? E sia. Ma cercando almeno di limitare le spese. Onore alla giustizia e alla storia, con parsimonia.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica