Lavoro e politica industriale, "la risposta all'emergenza climatica opportunità di sviluppo"

Andrea Roventini, parla delle opportunità della transizione e delle risposte alla crisi ambientale. Capaci di produrre un vero, sistematico sviluppo

Lavoro e politica industriale, "la risposta all'emergenza climatica opportunità di sviluppo"

Qual è il futuro del lavoro e della politica industriale nell'era della transizione energetica? Ne parliamo con Andrea Roventini, docente di economia politica alla Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa e research fellow all'Ofce di Sciences Po a Parigi.

Professor Roventini, come reputa lo stato dell'arte della transizione energetica in Italia?

"La situazione, purtroppo, non è delle migliori. Per lungo tempo l'Italia ha accumulato ritardi strutturali. Siamo ancora intrappolati in un dibattito che somiglia a una palude: quello che vede contrapposte le ragioni della sostenibilità ambientale e le dinamiche dello sviluppo economico. Andando alla radice del problema, è necessario ammettere che le due cose non sono mutualmente esclusive, ma vanno di pari passo".

Quale sarebbe la chiave di volta per far evolvere il dibattito in tal senso?

"Partire dai dati reali e da un dibattito ormai consolidato su grandi e prestigiose testate come il Financial Times: ammettere che con la transizione si farebbe un beneficio notevole all'economia. Tra le altre cose ci tengo a sottolineare quanto ormai è conclamato anche per l'Agenzia Internazionale dell'Energia (Iea): il fatto che la transizione energetica generi più posti di lavoro di quanti, potenzialmente, ne mette a rischio".

Il tema del lavoro sembra il grande dimenticato nelle discussioni sulla transizione...

"Si, assolutamente. La transizione energetica non è solo un'opportunità per lo sviluppo e una sfida inderogabile per rendere più sostenibile l'impronta del nostro sistema. Se ben governata può anche cambiare radicalmente il mondo del lavoro. Essendo legato a doppio filo al tema delle nuove tecnologie, lo sviluppo di posti di lavoro green porterà a un'occupazione più stabile e meglio retribuita per le nuove professioni. Chiaramente, dovrà andare di pari passo con un processo che integri i lavoratori dei settori in via di dismissione".

Una sfida di grande portata, non trova?

"Una sfida importante e inderogabile. Il cui contrappasso però rischia di essere quella stagnazione fossile in cui il nostro Paese si trova duramente intrappolato. L'ho scritto di recente con Aurelio Patelli e Angelica Sbardella su Il Mulino: a nostro avviso le imprese italiane hanno buone capacità tecnologiche per la transizione verde ma hanno bisogno di politiche industriali e d'innovazione. Solo così la risposta all'emergenza climatica può divenire un'opportunità di sviluppo. L'alternativa è che prenda piede la distruzione creatrice teorizzata da Joseph Schumpeter, con conseguenti insorgenze di disuguaglianze economiche e difformità di sviluppo geografico che impatterebbero su problemi già esistenti".

Come crede si potrebbe governare una questione del genere?

"Il tema del lavoro deve tornare a essere centrale in un disegno a tutto campo di politica industriale. Serve che lo Stato, gli enti e le aziende investano di più nella formazione di dipendenti e futuri professionisti nei campi che saranno oggetto della transizione. Serviranno regole capaci di garantire più posti di lavoro stabili e meno precariato, per permettere a tutti di adattarsi alle nuove dinamiche. E chiaramente, nuove dinamiche di gestione delle crisi aziendali".

Come sarebbe possibile mettere la reindustrializzazione al centro di questi processi?

"Con la Sant'Anna abbiamo provato a fare un caso di studio sulla Gkn di Firenze. Abbiamo ipotizzato un nuovo tipo di approccio pubblico: dalla gestione della cassa integrazione lo Stato potrebbe tornare a lavorare in un'ottica di nuova politica industriale per mettere l'azienda al centro della transizione green".

Il tema si lega strettamente a quello del reshoring...

"Il reshoring è un'opportunità che va discussa. Abbiamo bisogno di costruire nuove filiere, più autonome strategicamente e sicure per produrre pompe di calore, prodotti funzionali all'industria dell'idrogeno, pannelli solari, componenti per l'eolico e via dicendo. Così da rompere in parte la dipendenza per l'Italia e l'Europa. Casi come quello di Enel che sta gestendo la filiera del fotovoltaico sono positivi. In generale, la via del partenariato pubblico-privato può funzionare".

Ci sono esempi virtuosi in tal senso?

"Alla recente conferenza La transizione ecologica: un’opportunità di sviluppo per l’Italia organizzata il 25 gennaio scorso al Cnel ho citato l'esempio del consorzio Hybrit, un partenariato pubblico-privato operante in Svezia per finanziare la generazione di energia con l'idrogeno. Fondato da SSAB, importante azienda siderurgica LKAB, il più grande produttore europeo di minerale ferroso, e Vattenfall, uno dei maggiori produttori di energia in Europa, la sua esperienza mostra la capacità di mettere al servizio dello sviluppo nuovi modi di pensare la politica industriale.

In Italia potremmo pensare a un uso più industriale della Cassa Depositi e Prestiti, mettendo fine al modello di Stato-pensionato che attende solo i dividendi delle sue partecipazioni e inizi a dare una maggiore incisività strategica alla sua politica industriale".

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