Leigh Fermor in paradiso dopo l'inferno della guerra

"I violini di Saint-Jacques", l'unica opera di narrativa del grande scrittore di viaggio è ambientata nei Caraibi a fine '800

Leigh Fermor in paradiso dopo l'inferno della guerra

Nel 1947 Patrick Leigh Fermor andò nei Caraibi per un libro fotografico. Il fotografo non era lui, ma una sua vecchia conoscenza greca, Costa Achillopoulos. Paddy, così lo chiamavano gli amici, si sarebbe dovuto occupare delle didascalie e di un testo di accompagnamento, ma era Costa ad aver firmato il contratto, intascato l'anticipo e finanziato il viaggio, una seconda classe su una nave trasporto-truppe, la Colombie, ora riadattata al servizio civile. Dopo due settimane di navigazione, sbarcarono a Guadalupe, e da lì in Martinica, nelle Barbados e poi Portorico, Haiti, la Giamaica.

Nell'insieme l'esperienza non fu piacevole: troppa povertà, troppa decadenza, troppo forti ancora gli echi di una schiavitù che, per quanto abolita più di un secolo prima, continuava a riverberarsi nel rapporto fra bianchi, neri e mulatti. A seconda di chi era stato il colonizzatore si parlava un creolo-francese, un anglo-giamaicano, misto al caribe locale e all'ebraico e all'aramaico delle comunità lì giunte a forza o in cerca di fortuna. Ma erano ormai gli Stati Uniti, l'american way of life pubblicizzata su ogni insegna e cartellone, a fare la parte del leone. Fermor si sorprese a osservare che i tappi delle lattine di Coca-cola facevano in pratica da manto stradale e che il partito più votato era in genere quello comunista, anche se poi non era mai lui a gestire il potere.

In quella fine anni Quaranta, Patrick Leigh Fermor era ancora un eroe di guerra, fama tenuta viva dalla pubblicazione di un libro Ill Met by Moonlight, scritto da Bill Moss, suo compagno d'armi in Grecia (Appuntamento a Creta è il titolo in italiano), e dalla medaglia al valore l'Obe, L'Ordine dell'Impero Britannico, appuntatagli a Buckingham Palace da re Giorgio VI. Come scrittore però, a 31 anni era tutt'al più una promessa. I suoi viaggi in Grecia erano ancora in uno stadio informe e John Murray, l'editore a cui aveva sottoposto alcune pagine, pur apprezzandone lo stile ne aveva messo in evidenza l'incoerenza: «Il problema principale sarà dare una forma al libro e insieme un significato». La parentesi caraibica, a cui aveva subito aggiunto un'appendice sudamericana, Guatemala, El Salvador, Nicaragua, mise sul momento da parte l'idea di dare un ordine al suo libro greco e si concretizzò in The Traveller's Tree, L'albero del viaggiatore, dove il tema principale, il dislocamento di un particolare tipo di palma, originaria delle isole Mauritius e Reunion, era un pretesto per la storia di tutti quei gruppi etnici presenti nelle Antille, ma che, compresi i Caribe, in realtà erano nati altrove. Era un tema a cui Leigh Fermor era particolarmente sensibile, proprio per la sua smania di cercare fuori dalla sua patria quelle radici che sentiva proprie... Il libro rischiò di non uscire perché l'editore con cui aveva firmato il contratto fece bancarotta e fu John Murray, con la promessa che subito dopo sarebbe tornato al lavoro sull'altro libro, a pubblicarlo nel 1950.

The Traveller's Tree ebbe un buon successo e mise in luce Leigh Fermor come uno dei migliori scrittori di viaggio della sua generazione. C'era dentro, anche se meno sorvegliata rispetto ai suoi libri successivi, tutta la sua passione per gli intrecci linguistici e religiosi, l'esuberanza dello stile, l'amore per le digressioni, il gusto delle frasi a mo' di sentenza, la passione per la diversità, l'attenzione ai dettagli. C'era dietro un lavoro certosino di documentazione, a partire dal settecentesco Nouveau voyages aux Isles de l'Amérique dell'abate Labat e l'assidua frequentazione della biblioteca martinicana Schoelcher, una sorta di tempio della memoria antillana.

Tutto ciò che era rimasto fuori da The Traveller's Tree non andò però perduto e riemerse nemmeno un anno dopo in circostanze che vale la pena ricordare. Sull'onda del Black and White Ball a Longleat, in Inghilterra, l'avvenimento mondano della stagione a cui aveva preso parte, Paddy ricevette l'invito a scrivere un capitolo del volume Memorable Balls che avrebbe dovuto essere un po' la summa in materia. Nella fattispecie, il suo contributo avrebbe dovuto riguardare le feste danzanti delle Antille francesi, di cui le più celebri erano quelle di Martinica. Attirato dall'idea, Leigh Fermor si mise al lavoro, ma a una prima rilettura il testo gli sembrò noioso e privo di vita, come se il libro precedente avesse un po' prosciugato la sua energia in materia etnografica. Lentamente, il ballo da soggetto principale si trasformò in pretesto, mentre una folla di personaggi e di caratteri andava prendendo forma intorno a un tema grandioso quanto terrificante, l'eruzione del vulcano Pelée che ne 1902 aveva distrutto Saint-Pierre, l'antica capitale di Martinica e, come scrisse a un amico, «con essa tutto ciò che di prezioso, moralmente, materialmente, intellettualmente e politicamente in quella città aveva avuto il suo centro. In pochi minuti, tutto venne spazzato via». L'ipotetico capitolo tersicoreo si trasformò all'improvviso in un racconto lungo, The Violins of Saint-Jacques datato 1953, l'unica sua prova narrativa.

Ora che I violini di Saint-Jacques appare nuovamente in edizione italiana, oltre sessant'anni dopo la pubblicazione presso Feltrinelli (Adelphi, pagg. 129, euro 18, traduzione di Daniele V. Filippi), la sua particolarità assume un valore ancor maggiore se si tiene conto proprio di quanto successivamente, in libri come Tempo di regali, Fra i boschi e l'acqua, La strada interrotta, vale a dire il racconto della sua giovinezza errabonda lungo l'Europa orientale e fino a Costantinopoli, avrebbe significato. Così come la narratrice di I violini di Saint-Jacques è l'unica sopravvissuta di quel cataclisma e insieme il risultato di ciò che quel cataclisma ha rappresentato per lei, lasciandole solo il ricordo di ciò che prima è esistito, ma impedendole ogni possibilità di riallacciare qualsiasi legame reale, anche Leigh Fermor si ritrovò con la sua esistenza tagliata a metà. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale lo separò per sempre non solo da tutte quelle amicizie che fra la Germania e la Romania avevano punteggiato il suo apprendistato europeo, ma anche da quella che era stata la sua compagna, Balasha Cantacuzene, la loro vita in comune, la loro casa in Moldavia. «Quando la guerra scoppiò, tutti quegli amici scomparvero in un'improvvisa oscurità. In seguito, le distruzioni e i rivolgimenti furono di tale portata che solo anni dopo la fine di tutto la nube che li avvolgeva divenne meno spessa, e un pezzo alla volta potei mettere insieme ciò che era successo. Quasi tutti erano stati precipitati nel conflitto a dispetto di ciò che provavano e il disastro li aveva sommersi».

Costruito come un soliloquio in forma di racconto, I violini di Saint-Jacques mette in scena una famiglia dell'aristocrazia coloniale creola, i Seridan, proprietari di Beauséjour, la tenuta più ricca e più verde dell'isola di Saint-Jacques des Alizées, il loro mondo alla Paul et Virginie di Saint-Pierre, ovvero «foreste oscure e immense savane, torridi meriggi, piantagioni di canne da zucchero e terreni a parco». Intorno al grande ballo del Martedì grasso, organizzato dal conte de Seridan senza risparmio di musiche, delizie e sorprese, s'intreccia più di una storia d'amore, tutte però intossicate da una sorta di frenesia repressa destinata a esplodere quando nessuno se l'aspetta. È però tutta l'isola, nel suo miscuglio carnevalesco di alto e basso, di bianchi e di neri, a perdere ogni coordinata: «Nel giro di un minuto i saloni eleganti, le colonne scanalate, le pareti bianche abitate dai pallidi ritratti dei Seridan estinti - notabili schizzinosi e imparruccati, col nastro dell'Ordine dello Spirito Santo di traverso sui panciotti di seta a fiorami -, i loro rampolli viventi e i relativi spiriti sembravano essere svaniti, cedendo il posto ai guerrieri, agli stregoni e allo splendore sanguigno dei banchetti sacrificali del Congo e del Dahomey».

Come per Pompei, l'eruzione che annienta l'intera Saint-Jacques si trasforma nel racconto dell'unica superstite, in una dolente meditazione sulla vanità della vita: «Una formica isolata era sopravvissuta mentre l'intero formicaio era stato demolito da una forza ignara dell'esistenza dell'una come dell'altro. Tutto qui. Esplosioni, diluvi e glaciazioni, si potrebbe dire, sono le uniche vere date che marcano la storia»...

Eppure, alla fine qualche traccia poeticamente rimane ed è ciò che dà poi il titolo al libro, quel suono di violini, i violini di Saint-Jacques, appunto, i violini del conte de Seridan, che in tempo di carnevale i pescatori che si trovano lungo la rotta orientale fra le isole possono ancora sentire, «come se ci fosse un ballo in grande stile sul fondo del mare».

Costruito con sapienza e mano felice, in un alternarsi fra prima e terza persona, forte di un'erudizione tenuta però saldamente in pugno, e di una trama melodrammatica che assume i toni di un racconto fantastico, I violini di Saint-Jacques resta un unicum rispetto ai travelogues di Leigh Fermor, pur facendone

legittimamente parte, il racconto di un luogo incantato e per sempre scomparso, raggiungibile solo nel ricordo, la memoria come antidoto e insieme anestetico alla violenza imperturbabile della natura e in fondo della Storia.

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