Alessandro Sacerdoti, single dai trascorsi libertini, ebreo non osservante, romano benestante, professore di Letteratura francese, scrittore di una certa fama, si ritrova al centro di due «fattacci»: primo, viene accusato di sessismo da una collega che riesce a farlo licenziare dall'università, con conseguente gogna mediatica; secondo, si ritrova a dover badare a Noah, orfano di otto anni, figlio di una sua parente lontana e a dover combattere per tenerlo con sé... Il professor Sacerdoti è il protagonista di Aria di famiglia (Mondadori, pagg. 408, euro 21), il nuovo romanzo di Alessandro Piperno ed è un personaggio che i lettori dello scrittore romano conoscono già: «È lo stesso eroe di Di chi è la colpa, che all'epoca era un fanciullo, orfano, alle prese con un tutore, un vecchio prozio ricco, ebreo di buona famiglia, con cui nel frattempo ha rotto ogni rapporto» spiega Piperno, preannunciando che ci sarà «un terzo libro, che chiuderà la trilogia, in cui vedremo Sacerdoti trentenne, all'inizio degli anni 2000». Qui però ha cinquant'anni (alla fine del romanzo ne avrà 65) e «attraversa la più classica delle crisi di mezza età»...
Alessandro Piperno, che cos'è questa crisi?
«Si manifesta in tre modi: il disamore verso l'insegnamento; l'afasia creativa; la morte di una compagna di scuola che non vedeva da trent'anni, un lutto che improvvisamente lo precipita nella vecchiaia e nella depressione».
Nella sue disavventure, il protagonista rimane un po' sopraffatto: non se la cava benissimo, possiamo dirlo?
«Sì, possiamo dirlo. Più passano gli anni, più sono innamorato del romanzesco e, quindi, disposto a sacrificare la verosimiglianza narrativa per la peripezia: mi piace che avvengano tante cose. E amo torturare i miei personaggi infliggendo loro gli imprevisti che mi fanno paura, quasi per esorcizzarli: mi accanisco con i miei poveri alter ego...».
Ci sono dei tratti autobiografici simili fra lei e il professore?
«Ce ne sono eccome ma, per fortuna, la mia vita è più felice e risolta di quella del mio protagonista. Però lui reagisce alle sue disgrazie come farei io: con fatalismo, col sospetto di meritarselo e in modo piuttosto maldestro. È un uomo che non sa stare al mondo: non a caso fa lo scrittore...».
Dal «tribunale» dei colleghi universitari a quello dei social, fino a quello inglese per l'affidamento del nipote, lui dimostra di non reggere lo scontro.
«È così. È consapevole che il solo spazio di libertà di cui dispone è quello siderale dell'immaginazione e della fantasia: quando c'è da vivere, sbaglia tutto».
Il professore viene accusato di essere sessista e misogino e perde il lavoro.
«Metto in scena una situazione seria e drammatica, ancorché comica e grottesca. Viviamo in un'epoca in cui, come mostrano i fatti recenti, le persone che ricoprono un ruolo nel mondo universitario e culturale sono costantemente minacciate da varie forme di intimidazione, che vengono da tutte le parti. Poi c'è il vizio, molto contemporaneo, di prendere eccessivamente alla lettera qualsiasi sciocchezza. E chi prende tutto alla lettera fa disastri...».
Perché?
«Perché chi prende le cose alla lettera rinuncia al privilegio di essere ironico e paradossale. Mi sembra che ormai siamo in balia di due pulsioni antitetiche ma per molti versi interconnesse: da un lato una concezione ipervirilista della vita alla Trump/Vannacci, dall'altra il puritanesimo intimidatorio degli iperradicali. Ciò che sta in mezzo - l'ironia, il laissez-faire, il buonsenso - è venuto meno».
Il professore legge agli studenti delle lettere di Flaubert che vengono ritenute «scandalose». Così il romanzo solleva anche la questione della cancel culture: la letteratura può dire tutto?
«È un atteggiamento stupido e dannoso. La letteratura è il luogo della libertà suprema: le opinioni politiche di un autore non hanno nulla a che fare con la sua opera. Ma oggi siamo al parossismo per cui non solo vengono giudicati gli autori per quello che pensano, ma anche per come muovono i loro personaggi: o crei un'eroina di specchiata moralità, o rischi il biasimo di qualche anima bella...».
Con quale risultato?
«La fine di ciò che da sempre ha nutrito la letteratura occidentale: l'ambiguità, i punti oscuri, i luoghi sordidi, gli impulsi meno commendevoli. Gli intrighi di Iago, gli omicidi di Raskolnikov, la pedofilia di Humboldt... La storia della letteratura è fatta di misfatti, non di buone azioni ed è increscioso che venga ridotta a megafono di una morale codina e puritana».
Però succede.
«A volte mi sembra che le polemiche siano pretestuose, più legate a questioni di piccolo potere che a un reale sentimento di indignazione: un trampolino di lancio per la carriera di qualche intellettuale spregiudicato...».
Perciò nel romanzo dice che «la politica è tornata di moda»?
«Ironizzo sull'abitudine di chiamarla in causa continuamente e a sproposito. Quelli che ti dicono che: tutto è politica. Non è così. La politica ha un perimetro preciso che riguarda le idee e la gestione della cosa pubblica: evocarla per qualsiasi sciocchezza, attribuirle compiti che non le competono significa annacquarla e credo venga fatto, anche in questo caso, per ragioni strumentali».
Come mai la scelta di un io narrante, in quello che è un romanzo, e non autofiction?
«È una scelta vecchia come la letteratura: uno stratagemma per creare maggiore complicità con il lettore. Quanto all'autofiction contemporanea, non credo che sia una grande invenzione: in fondo, anche la Divina commedia è autofiction. A me non interessa raccontare i fatti miei, che ritengo noiosi, bensì usare la mia esperienza per creare una figura romanzesca. Come David Copperfield».
Si ride, anche...
«Temo che anche questa sia un'attitudine un po' démodé: dovrei interrogarmi? So che l'ironia non è molto in voga nella narrativa odierna. Ed è un peccato perché il comico è una forma di intelligenza delle cose».
A un certo punto, un altro professore, mentore del protagonista, suggerisce di «leggere lentamente». Perché?
«Dice una cosa in cui credo: sono stato un grande divoratore di libri, ma ritengo che divorare quelli davvero importanti sia una specie di crimine. In una lettera Flaubert scrive che un lettore sarebbe molto più sapiente se conoscesse veramente bene solo cinque libri. La penso così anch'io: per me la lettura è degustazione, non una scorpacciata al fast food».
I suoi cinque libri quali sono?
«Ce ne sono alcuni che ho riletto spesso: i Saggi di Montaigne, Madame Bovary, Anna Karenina, la Recherche, Pastorale americana di Roth».
Il protagonista dice di combattere contro la «volgarità dello Zeitgeist», quella «filistea dei benpensanti e dei moralisti». Viviamo in un mondo volgare?
«Diciamo che il mondo lo è, da sempre. Ciò espone chi fa un lavoro artistico a una contraddizione: devi trovare il modo di raccontare la volgarità con eleganza. Per me la letteratura è proprio questo tentativo di trasfigurazione. Nella vita questo non è possibile: sei molestato dalla volgarità del mondo, sui social e in tv vedi opinionisti di dubbia reputazione parlare di tutto con settarismo, violenza, in perfetta malafede. Robaccia in cui siamo immersi fino al collo ma di cui un narratore non può fare a meno».
Rimarrebbe senza lavoro?
«Eh, sì. Lavoriamo con questa pattumiera: sta a noi renderla prelibata. Come Flaubert, sogniamo un po' tutti di scrivere un libro sul niente».
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