"La filosofia parla la lingua degli dèi. Ma se si lega alla politica diventa ideologia"

Lo studioso: "L'innovazione non è un problema del pensiero, bensì dell'arte e della tecnica"

"La filosofia parla la lingua degli dèi. Ma se si lega alla politica diventa ideologia"

Peter Sloterdijk, professore emerito di Filosofia ed Estetica alla Staatliche Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe (la città dove è nato nel 1947), è diventato celebre per avere rievocato il connazionale di Königsberg nella sua Critica della ragion cinica, uscito per la prima volta nel 1983 (in Italia, edito da Cortina); negli anni ha espresso il suo pensiero in altre opere di successo come Devi cambiare la tua vita (Cortina 2010) e la trilogia Sfere (2014-2015). Il suo saggio più recente è invece dedicato al Grigio. Il colore della contemporaneità (Marsilio 2023). Per la sua influenza e i suoi studi, il filosofo e saggista tedesco ha ricevuto il Premio Udine Filosofia 2023, nell'ambito del Festival Mimesis, giunto alla decima edizione (dal 3 al 5 novembre). Questa edizione è dedicata a «Filosofia e trasformazione digitale».

Professor Sloterdijk, ha ricevuto il Premio Mimesis come «innovatore del pensiero e tra i massimi studiosi dell'impatto del virtuale sull'umano». Quanto all'innovazione del pensiero, qual è il ruolo della filosofia oggi?

«Innanzitutto voglio dire, seguendo l'esempio del collega Heidegger, che l'innovazione non è una questione del pensiero, bensì un problema dell'arte e della tecnica. Il pensare, come diceva Heidegger, rimane uguale e per pensare bene bisogna capire che è questo stesso elemento a esplicitarsi sempre di più: il pensare è l'avventura dell'esplicazione che procede. Quindi io vedo un contributo da parte mia in questo senso, soprattutto per quanto riguarda il tema dello spazio: ho aggiunto una sfumatura creativa, sotto la forma delle sfere, un progetto in cui ho cercato di cambiare lo spazio abitato dall'uomo e di creare, appunto, una costruzione di sfere».

Come è cambiata la lingua della filosofia?

«Il linguaggio della filosofia è sempre stato importante, perché la filosofia ha sempre cercato di imitare il linguaggio degli dèi e di tradurlo in quello delle persone. Pensando allo schema di Vico, i mediatori eroici erano coloro che volevano effettuare questa traduzione. Oggi noi perdiamo questo lavoro di traduzione, perché pensiamo che esista solo una lingua, e questo è un grande errore. Una delle cause principali è Wittgenstein, che parla solo di ordinary language e non sa niente del linguaggio degli dèi, non sa nulla, soprattutto, dell'imperativo...».

Che cos'è l'imperativo?

«Tutte le lingue sono declinazioni dell'imperativo, e anche declinazioni della rappresentazione. Dobbiamo sempre scegliere: vogliamo rappresentare qualcosa o vogliamo imporre qualcosa? Vogliamo chiedere qualcosa o vogliamo rappresentarla? Il linguaggio umano rappresenta e il linguaggio degli dèi dà degli ordini. Il mio contributo è tentare di creare una costellazione: per quanto possibile cerco di attingere al linguaggio poetico e di collegarlo a quello delle persone. Si tratta di collegare la lingua di sopra e quella di sotto: quella superiore è la lingua dei poeti, che sono le bocche degli dèi».

Oltre «spazio» e «sfere», ci sono altre parole chiave nel suo pensiero?

«Esercizio. L'allenarsi, l'agire, o meglio l'esercizio, si rivela nel fatto che alcune persone sappiano fare certe cose e, non appena questo poter fare appare come idea, appare anche una differenza verticale tra meglio e peggio. E questo vale per tutto: l'esercizio, oltre al lavoro e alla comunicazione, è una categoria fondamentale della sociologia e dell'antropologia, ma spesso è stato dimenticato. Non c'è una filosofia della vita, dell'esercizio».

Lei che cosa propone?

«Questo vuoto va colmato col tu devi cambiare la tua vita, la vita come allenamento. L'allenarsi è rendere un'azione migliore rispetto alla volta prima che ci hai provato: quando vogliamo raffinare o migliorare qualcosa, o quando ripetiamo un'azione molte fino ad automatizzarla, questa automatizzazione rende più semplice il gesto e possiamo raggiungere livelli di difficoltà più alti; e lì possiamo diventare creativi, e continuare a salire lungo questa scala verticale. C'è una forma non repressiva di verticalità nell'essere umano, che porta all'arte, allo sport, all'esercizio religioso».

E la tecnica?

«La tecnica è un mezzo per ottenere l'antigravitazione e la distanza, perché l'uomo è un animale della distanza. Quando c'è un predatore, noi e gli altri mammiferi scappiamo; ma l'uomo si difende anche lanciando sassi: è il figlio del proiettile. Così i nostri corpi hanno la possibilità di non doversi adattare all'ambiente e possono diventare belli...»

Perché il grigio è il colore della contemporaneità?

«Beh, il grigio... Il grigio si trova in un mondo che è diviso tra bianco e nero: è la sfera della libertà, delle sfumature. Chi elogia il grigio elogia tutto ciò che si trova in mezzo: se vogliamo è la sfera della filosofia stessa, perché la filosofia fa delle distinzioni, e poi ne effettua di ulteriori, e le sfumature sono sempre parte del secondo livello di distinzioni. Nietzsche diceva che i tedeschi non hanno questa idea delle sfumature, sono grossolani nei loro pensieri...»

La conseguenza?

«È ovvio che, non appena abbiamo valori terzi, lì finisce l'aggressività del pensiero, perché non abbiamo un pensiero binario; e questo terzo valore è il grigio oppure, per quanto riguarda il cattolicesimo, il purgatorio, perché il purgatorio si trova in mezzo, tra inferno e paradiso, e la realtà si trova sempre in mezzo... Noi ci troviamo nell'epoca dell'argento, in cui quelli che vogliono un'epoca d'oro possono criticare, alimentare polemiche e dire che siamo nel peggiore dei mondi possibili; e questa è l'iperbole di qualsiasi critica moderna: se qualcosa non è perfetto è subito l'inferno. È la logica dei giovani, ed è la logica dell'eterna sinistra: meno perfetto è subito qualcosa di diabolico».

Qual è il legame tra filosofia e politica?

«Innanzitutto si tratta di un nesso negativo. La filosofia nasce quando soccombe la polis greca. All'inizio sembra esserci una politica filosofica, lo vediamo con Platone, ma c'è già la prospettiva di una polis distrutta: Platone vuole ricostruirla nominando dei regnanti filosofi, ma questo significa appunto che non ci sono più i politici e la politica... La filosofia si distacca dal potere e dalla politica e questo vale anche per tutta la filosofia ellenistica: nella sua ricerca di dottorato, Marx scrive che nella tarda antichità la filosofia si manifesta solo come una piccola lucetta da comodino, qualcosa che sta di fianco al letto di una persona, in privato. E anche nel cristianesimo si tratta di una filosofia non politica: abbiamo la Civitas Dei di Agostino, che ha avuto il grandissimo merito di creare un secondo mondo, diversamente dall'islam, che non ha mai conosciuto una civitas terrena, e infatti c'è un'eterna polemica fra gli imam e i regnanti del mondo».

E oggi?

«È un errore della modernità: tra politica e filosofia non dovremmo vedere un legame così denso. Il filosofo o vive nelle scuole, in una specie di stazione spaziale quindi, come l'Accademia nell'antica Atene; oppure vive da un'altra parte, come Diogene, che praticamente era un alieno, e infatti Platone si riferisce al filosofo come xenos, cioè straniero... Credo che tutta la modernità parta da un concetto sbagliato, che vuole rendere la filosofia di nuovo politica, e così nascono le ideologie. La filosofia perversa diventa filosofia politica». Come? «La filosofia è uno svilupparsi verticale, che presuppone il fatto che le relazioni con le comunità umane vengano messe fra parentesi. È dal distacco che nasce la filosofia, e quando non c'è più questo distacco passiamo alle ideologie, e alla melma delle ideologie.

Quindi credo che questo nesso tra filosofia e politica non esista, ma che molte persone si riferiscano a questo elemento delle ideologie. Nietzsche diceva: tutti gli innovatori sono persone che si sono fatte carico di questo fango...»

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