James Ellroy, un White Jazz che ancora racconta l'’America amara degli anni Cinquanta

White Jazz, ultimo capitolo della "tetralogia di Los Angeles" di Ellroy da poco ripubblicato da Einaudi, è uno sguardo sulla Los Angeles anni '50 costellata da crimini, vizi privati e pubbliche virtù

 James Ellroy, un White Jazz che ancora racconta l'’America amara degli anni Cinquanta

Con questo incipit, nel lontano 1992, James Ellroy dava vita a White Jazz, ultimo capitolo della sua "tetralogia di Los Angeles" (da poco ripubblicato da Einaudi) dopo Dalia Nera, Il grande nulla, La Confidential: "Tutto quello che mi resta è la volontà di ricordare. Non c’è più il tempo: solo sogni febbrili. Mi sveglio con un senso d’ansia; ho paura di dimenticare. Nelle fotografie la donna è sempre giovane. Articoli di giornale: lacune da colmare. Nomi, avvenimenti: così brutali, che implorano di essere collegati. Sono passati degli anni: i frammenti della storia sono dispersi. I nomi sono nomi di morti, o sono troppo colpevoli per parlare. Sono vecchio. Ho paura di dimenticare. Ho ucciso degli innocenti. Ho tradito dei giuramenti sacri. Ho raccolto a piene mani l’orrore, per trarne profitto. La febbre. Una febbre bruciante, ormai. Voglio andarmene con la musica, voglio abbandonarmi al suo vortice, voglio svanire con essa".

 James Ellroy

L'autunno 1958 dipinto da Ellroy

Siamo nell’autunno 1958, molto prima dei Beatles e dei Rolling Stones. Lo stesso anno in cui Ellroy, bambino, resta orfano della madre, barbaramente uccisa in quel di El Monte e la cui scomparsa resta ancora oggi un cold case. Ellroy comincia dalla prima riga una sorta di flusso di coscienza appartenuto a ben altro James (la punteggiatura ne è testimone) del poliziotto corrotto David Klein, che proprio in quel di Los Angeles si trova a ad avere a che fare con vizietti privati e pubbliche virtù di un’America incastrata tra il conformismo degli anni Cinquanta e il libertarismo dei Sessanta. Sono gli anni della ri-nascita del mito dell’Ovest: qui si erano trasferite molte famiglie dopo la smobilitazione dei padri: ma se il baby boom passava come il frutto più dolce del postmaterialismo del Dopoguerra, il Paese veniva scosso da una grande ondata di divorzi: giovani soldati invecchiati in guerra, ritornati dall’Europa e dal Pacifico, ritrovavano altrettanto giovani mogli con le quali scoprivano di non aver mai avuto nulla in comune.

Soprannominato l’Esecutore, Klein, ha spesso il compito di eliminare tracce e persone dietro sonanti verdoni. I colleghi lo sanno bene o quantomeno lo sospettano e, dalla prima all’ultima pagina, il piano della giustizia personale di Klein si sovrappone al corso legale delle operazioni, quello fatto di scartoffie, regole e autorizzazioni. Ma anche di soprusi, piccoli scandali. Violenza. Ce n’è a bizzeffe nelle pagine di Ellroy: sangue, costole rotte, ferite, sevizie, morfina, stupri. Klein è un disadattato, un “tedesco, non ebreo”, come ama definirsi, che vive ai margini della società, perennemente braccato dai suoi compromessi e dalle sue meschinità, senza famiglia né fissa dimora. Unico punto fisso una sorella, la maliarda Meg, alla quale è legato da un rapporto morboso. Un alien in Los Angeles, per parafrasare Sting, che vive di pasti frugali, lunghe notti in auto, sigarette e alcol. Ma è la violenza che resta protagonista del romanzo, e il suo duplice volto: quella degli spacciatori, delle prostitute e dei guardoni, e quella celata tra le mura domestiche tra segreti di famiglia, affari sporchi e connessioni con la politica alta. A Klein non resta che vivere da Raskòl’nikov col distintivo, tormentato da demoni reali e figurati.

L'America di Ellroy tra boxe e malavita

Tra jazz old style e bicchieri di whiskey, poco penetra dell’America e del suo mito. Eppure quell’anno, in gennaio, Washington aveva mandato nello spazio il primo satellite artificiale, l’Explorer 1. Di lì a poco il presidente Eisenhower avrebbe inaugurato la National Aeronautic and Space Administration. Lo scià aveva già ripudiato Soraya dagli occhi tristi, in Italia la Dc si mostrava potente e in Ungheria il partito comunista si macchiava le mani con il sangue di Imre Nagy. E se, nel frattempo, Papa Pio XII lasciava questa terra, Boris Pasternak era costretto a rinunciare al premio Nobel per la letteratura. Ma di questo universo che gira, nel mondo a luci soffuse di White Jazz non v’è traccia. Si tratta di un’America sulla quale non splende mai il sole, incastrata tra diner dai sedili in pelle color granatina e dai menù appiccicosi, tensioni razziali che rimbombano nella parola negro ripetuta ossessivamente, attricette pronte a vendersi alla Hollywood che verrà, sperando nella Dolce vita tenuta a battesimo, nelle stesse settimane, da una AÏché Nana che si denudava pubblicamente in quel di Roma.

Jack LaMotta

Dei casi che Klein si trova a seguire c’è l’inchiesta aperta dall’FBI sui collegamenti tra l’ambiente del pugilato professionistico e la malavita, all’interno della quale uccide un testimone chiave, volato "casualmente" giù da un balcone. Ma c’è anche il tentativo, mandato a segno, di incastrare un candidato democratico alle elezioni alle amministrative di Los Angeles. Due casi che portano via lo sguardo, a ondate, dagli slums bui nei quali si aggira Klein e che riportano il lettore all’America che fu. Vicende che non sono frutto della fantasia di Ellroy ma che pescano, soprattutto la prima, in eventi snodatisi negli Stati Uniti dagli anni Quaranta fino ai Settanta. Come la vicenda di Frankie Carbo, potente malavitoso italoamericano, esponente della Cosa nostra americana, che negli anni Quaranta si legò mani e piedi al mondo della boxe, diventando manager di grandi campioni come Jack LaMotta. Poi, l’arresto nel 1961 per estorsione, in un processo ove l’accusa fu sostenuta dal procuratore generale Robert Kennedy: lo “zar” della boxe si beccò 25 anni, sebbene la sua società continuasse a gestire incontri celebri, come i due match per il titolo mondiale dei pesi massimi tra Sonny Liston e Cassius Clay.

La politica americana e il mito di Jfk in costruzione

Ma il piano tra le inchieste che Klein segue si intreccia anche con la politica americana, che timidamente si affaccia nel racconto agitato del protagonista: Ellroy traccia il ritratto di Welles Noonan, procuratore federale per il distretto della California meridionale, ritratto come ex membro della Commissione McClellan. Ebbene, la suddetta commissione non è un volo pindarico dell’autore: traendo il nome del senatore democratico John Little McClellan, questa sottocommissione si occupò-tra il 1957 e il 1966- di indagare sulle infiltrazioni del crimine organizzato nei sindacati americani. La stessa commissione di inchiesta che procurò il primo pentito della storia della mafia americana: Joe Valachi, affiliato al clan dei Genovese, che scoperchiò agli occhi dell’Fbi l’intricato mondo della Cosa nostra d’Oltreoceano.

Ma nella penna di Ellroy, Noonan è anche in “stretti rapporti” con un certo John Kennedy, giovane senatore del Massachusetts, rampollo di una delle grandi dinastie d’America, “aspirante alla candidatura presidenziale”. L’illustre outsider aveva strappato la poltrona di senatore nel 1952 a Henry Cabot Lodge con una vittoria di misura, una costante della sua vita politica. Il 1958 era stato per Kennedy il secondo della sua campagna elettorale “ufficiosa” per la nomination democratica. La ri-candidatura al Senato sarebbe servita ad iniziare la scalata verso la Casa Bianca e il calcolo fu esatto: con il 73,6% delle preferenze, portava a casa il margine popolare più ampio mai raggiunto nello Stato. Fu il trampolino per un tour schizofrenico in giro per il Paese, Alaska compresa, iniziando a mietere endorsement e pacche sulla spalla. Se, in giugno, Newsweek lo incoronava candidato alla presidenza, il mese successivo il New York Times forgiava il mito dello “statista” “bello e ben dotato” che correva dritto verso le elezioni di mid-term.

La seconda grande crisi degli oppiodi: la Los Angeles dell'eroina

Nel giro di favori serviti e restituiti, di mazzette, di vita sottotraccia, Klein finisce anche in un’indagine sulla famiglia degli spacciatori Kafesjian, criminali all’ennesima potenza, disagiati quanto basta. L’unica punta di umanità che rischiara le tenebre di un’America mentecatta e perversa è Glenda, l’attricetta ex-prostituta alle prese con un film finanziato da un gangster di cui Klein fa l’errore di innamorarsi, invece di marcarla stretta e basta. Una bionda tutta seno e gambe, la cui parabola, nonché le frequentazioni poco rispettabili non possono non rimandare alla meteora di Marylin Monroe che, proprio in quegli anni, combatteva con l’infelice matrimonio con Arthur Miller, caratterizzato dalla delusione di lui e dall’infelicità di lei annegata nei barbiturici, costellata da aborti e depressione. Glenda, però, avrà un destino diverso, sfondando per trenta lunghi anni. A dircelo è il vecchio Klein, che la rimpiange una vita intera, guardando il suo successo da lontano.

Sullo sfondo delle vicende umane, troppo umane, di Klein, fin dall’inizio del libro, ha un ruolo fondamentale l’eroina, quasi attrice non protagonista. In largo anticipo sulle vicende europee da Zoo di Berlino, gli Stati Uniti negli anni Cinquanta erano alle prese con la seconda grande ondata di oppioidi. Se negli anni Trenta e Quaranta aveva preso di mira la scena jazz di Harlem, negli anni Cinquanta si sovrappose alla subcultura beatnik, prendendosi le aree urbane. In quegli anni la maggior parte dell’eroina che entrava nel Paese era un prodotto della cosiddetta “French connection”, ovvero una collaborazione fruttuosa tra i gangster corsi di Marsiglia e la mafia siciliana. Se nelle città della costa orientale e del Midwest si consumava eroina turca giunta da New York già all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, Los Angeles era da tempo aperta ai mercati dal Messico e da Hong Kong: erano, infatti, i consumatori dell’Ovest e del sud Ovest a determinare i desiderata Usa in fatto di mamma ero.

Un epilogo salvifico

Nella città degli Angeli Caduti, così come è iniziata, si chiude la misera parabola di vita del poliziotto corrotto David Klein, ricercato dai federali nel momento in cui esplodono i cerchi concentrici dei casi in cui è coinvolto. Così come esplode la sua mente, pronta a vomitare anni di menzogne, violenza, fughe, avidità, giuramenti non mantenuti, delitti orribili, in una sorte di notte da Innominato. Due notti e sei blocchi per appunti in cui svuotare l’anima, la fuga, un ultimo pestaggio, la morfina che lo porta in una sorta di allucinazione verosimile, che in bellezza è pari solo a quella di Al Pacino nel finale di Carlito’s way. E poi una calibro 38 e un passaporto in bianco, un’ultima notte singhiozzata con la sua Glenda che fa passare il lettore dalla sua parte dopo pagine e pagine di repulsione.

Una nuova vita da vecchio ricco gringo in Brasile, come molti in quegli anni, tormentato dal rimorso delle malefatte e dalla nostalgia della vita non avuta. Nel frattempo, alla luce del giorno, sugli Stati Uniti e su Los Angeles giunge l'alba del 1959. Tutto, tanto, dovrà ancora accadere.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica